ALESSIA
«Il termine carcelazo non era conosciuto da tutti i reclusi di San Pedro. Lo utilizzavano quei detenuti che avevano contatti con carcerati stranieri i quali, probabilmente, lo avevano sentito in altre prigioni latinoamericane» (“La casa di sapone. Etnografia del carcere boliviano di San Pedro” – Francesca Cerbini)
Il carcelazo è una malattia che non esiste nei libri di medicina, né probabilmente al di fuori dell’istituto penitenziario che ne è per l’appunto la causa, l’agente patogeno, come suggerisce il nome stesso. Eppure il carcelazo è reale ed è significato in modi diversi dagli interlocutori dell’antropologa Francesca Cerbini.
Mal di cuore, mal di testa, furto dell’animo. Può essere il diavolo che ti afferra o la depressione. In tutti i casi, questo tipo di patologia non viene mai o quasi esplicata dalle persone che ne sono colte alle diverse soggettività terapeutiche esistenti nella casa di sapone boliviana. Né con il medico, né con lo psicologo e spesso neppure con lo yatiri, si corre il rischio di esser presi “per matti”. E allora si cerca di trovare le parole giusto per spiegare un malessere indicibile.
NB. In Bolivia lo yatiri può rappresentare una guida spirituale e tradizionale, spesso legata alle pratiche andine. Come nelle comunità extramurarie, in carcere lo yatiri è il saggio che, in connessione con l’esoterico, fornisce consulenze e somministra preghiere, rituali o letture – spesso con le foglie di coca. Può essere un punto di riferimento per le persone in carcere anche per dare senso al male dell’essere rinchiusi.
« […] anche se voi non ci credete, sono morto» (2016. F. Cerbini, p.183)
Descritto come qualcosa che annienta i sensi, il carcelazo è una forma di disperazione che colpisce le persone in seguito alla presa di coscienza dell’essere recluso, o dopo una serie di eventi negativi. Gli interlocutori dell’etnografa che sperimentano il carcelazo, raccontano che la manifestazione dei sintomi arriva in momenti ben precisi: ad esempio dopo l’emissione del verdetto, o per chi aveva creduto di esser stato incarcerato per sbaglio, quando realizza che non uscirà tanto presto.
Non è possibile dare a questa sindrome un tempo o associare dei sintomi che siano validi per tutti, in quanto il carcelazo è intrinsecamente legato al vivere il carcere e ogni persona lo vive in modo differente. Questa patologia pare delinearsi in due forme: una leggera e una più grave. Per la prima può parlarsi del disorientamento iniziale di entrare in carcere e il rimedio è spesso l’uso delle sostanze stupefacenti, metodo magari utilizzato già fuori dalle mura. La seconda si abbatte sul corpo del detenuto prigioniero zzato dopo il pronunciamento della condanna, in genere quando sono già passati uno o due anni dall’incarcerazione.
«Prendeva forma una specie di calendario del malessere del carcelazo che mostrava i suoi ancoraggi simbolici negli avvenimenti giudiziari o affettivi più rilevanti: l’entrata o il compimento del primo anno di reclusione, i diciotto mesi attesi per cercare di ottenere la “retardación de justicia”, la condanna o l’allontanamento della famiglia. Per cui ognuno, sulla base delle proprie propensioni e della situazione personale, segnava il ritmo della sindrome». (ivi, p.184)
NB. La “retardación de justicia” è uno degli aspetti che caratterizza le ingiustizie dell’iter giudiziario boliviano di chi è preventivamente detenuto in misura cautelare e aspetta la scarcerazione per decorrenza dei termini.
Gli eventi scatenanti il carcelazo non riguardano solamente il fallimento del percorso giudiziario ma tutto quello che riguarda la vita della persona condannata, quindi anche – e a volte soprattutto – le relazioni con l’esterno, la famiglia, gli affetti. La rottura dei legami, della quotidianità precedente al vivere ristretto, di un’identità personale conduce al carcelazo che si configura a questo punto come “perdita si senso dell’esistenza”. E oltre alla disperazione, al mal di cuore, alla perdita di senso, la sindrome del carcere colpisce il corpo del detenuto indebolendolo, abbassando le difese.
«D. Quando le è venuto il primo carcelazo?
I problemi arrivano tutti insieme. Avevano pronunciato la mia condanna, mia moglie smette di portarmi mio figlio […] e improvvisamente in una settimana ero pieno di problemi: familiari, economici, la condanna… e ti fanno deprimere. Non mancano i buoni amici che ti fanno provare droga e alcol, quell’alcol rosato, non il bianco. Non sei quasi interessato alla vita.
D. Quanto dura il carcelazo?
Dipende da ognuno. Io avevo voglia di uccidermi ed ero diventato uno straccio. La famiglia ti abbandona, hai sempre più problemi, e vorresti impiccarti […]. Alcuni, quando hanno avuto la loro condanna a trent’anni, si sono uccisi. Una coppia si è uccisa insieme dopo la sentenza.
D. È questo il carcelazo?
Sì, non ce l’hanno fatta a resistere qui dentro. È la depressione, quando ti senti solo, abbattuto, quando nulla ha più senso, quando senti che il mondo non ha più senso nella tua vita. – Jaime, sezione Álamos, 6 marzo 2008» (ibidem)
Il carcere in Bolivia è chiaramente molto diverso da quello che conosciamo qui oggi in Italia e non è questo lo spazio adatto per affrontare tutti gli aspetti che lo caratterizzano. Non è però un caso aver scelto questo in particolare, il carcelazo è una sindrome che agisce sul corpo della persona detenuta in conseguenza stessa della sua pena che seppur vuole definirsi incorporea, è invece indubbiamente il contrario. Come in Bolivia, in Italia e probabilmente nel mondo.
Se sei interessat* ad approfondire faccelo sapere nei commenti, ti consigliamo comunque di leggere il libro di Cerbini.
Lascia un commento