Tabù del femminile nelle piazze di oggi
Quattro giorni fa sulle testate italiane leggiamo che in piazza Municipio, a Napoli, accanto all’opera fallica di Gaetano Pesce, è comparsa una vulva provocatoria che ha avuto però vita breve. Rimossa prontamente dalle autorità, l’opera dell’artista Cristina Donati Meyer, ci ricorda ancora una volta la maggiore legittimità dell’esibizione pubblica della Grande bellezza del fallo rispetto a quella di una vulva che continua, tra le altre cose, ad essere erroneamente definita “vagina”.
Certo, non si nega che l’opera di Donati Meyer non era stata autorizzata, tuttavia ci chiediamo, come ha fatto anche il team di PeriodOff: “Ma se un’artista chiedesse l’autorizzazione di una vagina gigante, quale amministrazione gliela concederebbe?”
Sul territorio italiano è letteralmente “visibile” il tabù del femminile: le statue e i monumenti eretti in memoria di personaggi e storie femminili sono 171. E poche di queste figure sono ricordate per altro oltre che per i meriti di sacrificio e di cura. Sono persone realmente esistite, personaggi letterari o leggendari, e rappresentazioni di collettività anonime, tutte situati in spazi pubblici come piazze, giardini e strade. Le rappresentazioni monumentali del femminile in Italia sono state individuate nel 2021 dal censimento e la ricerca portata avanti dall’associazione Mi Riconosci che potete consultare qui.
All’ostentazione fallocentrica dell’essere maschio, corrisponde un’immagine del femminile che deve essere celata, se non espressa dalle prospettive del genere opposto. Lontana dagli occhi di chi attraversa le piazze ma allo stesso tempo proiettata sugli schermi come quella maga accattivante, quella sirena ammaliante che fa cadere ai suoi piedi ogni uomo e tremare di invidia ogni donna. La contrapposizione di genere maschile e femminile si gioca in tutte le cose che caratterizzano il nostro quotidiano, pensiamo banalmente alla dimensione domestica: per lungo tempo sede indiscussa del femminile, luogo-prigione in cui si relega il ruolo di tutrice, curatrice, dispensatrice di cibarie e affetto materno. La performatività del ruolo di genere prende il suo potenziale naturalizzante dalla stessa capacità di essere ripetibile.
La ripetitività della performance di genere – parafrasando Judith Butler – fa sì che attraverso le parole, il sapere, le narrazioni, le pratiche e i rituali si reitera un tipo di atteggiamento in linea con il ruolo socialmente costruito di uomini e donne nei diversi gruppi culturali.
I dualismi interiorizzati – del duro e del morbido, del forte e del debole, del pubblico e del privato, del razionale e dell’emotivo – possono essere rintracciati in altri contesti, nella ripetitività di un rituale che conferma – invertendole – le regole sociali associate ai comportamenti di genere.
Vediamo, ad esempio, la manifestazione di questa pratica performativa nel rituale naven osservato da Bateson tra il 1935 e il 1936 della popolazione Iatmul della Nuova Guinea. Un rituale incentrato sul “mostrarsi”, sul “dare a vedere” che consiste nello scambio dei ruoli tra il maschile e il femminile: gli uomini iatmul, travestiti da donne, inscenano una femminilità crudele e seducente in grado di suscitare quasi l’incesto; le donne iatmul, travestite da uomini, esasperano le gestualità maschili e le manifestazioni di orgoglio e fierezza dei guerrieri.
Il rituale naven si inserisce nel contesto di rito di passaggio dei giovani e permette agli appartenenti al gruppo di mostrarsi fieri o affettuosi uscendo dalle proprie categorie di genere in uno spazio e un tempo precisi, al di fuori dei quali, nella quotidianità, questo non è possibile. Non è possibile per un uomo iatmul esprimersi in atteggiamenti di affetto come non è possibile per una donna iatmul mostrarsi fiera. Ed è qui che entra in gioco il rituale naven: rende possibile una fuga momentanea dal proprio habitus e un ritorno che modifichi le tecniche incorporate per esprimere emozioni con nuove gestualità sulla scena sociale.
«Attraverso un’esperienza corporea intensamente emozionale, determinata dall’assunzione di una diversa identità corporea, lo zio materno e la madre del giovane possono manifestare i loro sentimenti senza entrare in contrasto con il comportamento socialmente legato al proprio ruolo sessuale, e il giovane può riposizionarsi in termini affettivi nei confronti di entrambi.» – Giovanni Pizza, “Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo”
Interiorizzare una vocazione alla cura (del maschile)
Quando una persona con utero soffre di terribili crampi mestruali non trova che una rete ben consolidata al femminile che supportandola, sta lì a ricordarle che è naturale soffrire se si è donna* (*o appunto, se si ha un utero). La naturalizzazione di questa sofferenza insita nell’essere socializzate donne, oltre ad essere frutto di una costruzione socio-culturale – come non ci stancheremo mai di ricordare – è anche causa della parzialità della ricerca medico-scientifica sui corpi femminili.
«Anche qui i rapporti di genere sono l’esempio più paradigmatico [della presenza di violenza strutturale]: gli uomini, in modo straordinariamente costante e trasversale a moltissime società, tendono a non sapere pressoché nulla della vita, del lavoro o delle prospettive delle donne, mentre le donne di solito sanno molto degli uomini – in effetti, sono tenute a farlo, dato che buona parte di quel lavoro interpretativo (se si può chiamare così) sembra ricadere sempre sulle donne – il che, a sua volta, spiega come mai di norma non è considerato affatto un “lavoro”». – David Graeber, “Le origini della rovina attuale”
Internet e i media, attraverso la loro specifica facoltà di connettere le persone e le loro storie, ci aiuta oggi a tenere assieme tutte le esperienze di violenza strutturale che colpiscono chi, ad esempio, recatasi dal medico per dolori cronici, deve superare le 7 fatiche d’Ercole e più per farsi riconoscere e diagnosticare l’endometriosi: perché alla fine se soffrire è naturale, quale altra risposta potrebbe dare un medico di fronte alla sofferenza femminile se non “sarà lo stress”?
L’oppressione storica che contraddistingue il femminile ha reso questa dimensione più accogliente, più accomodante e abnegante della controparte maschile che invece è naturalizzata al potere, al successo, al privilegio.
In condizione di pari difficoltà può succedere che sembrino le donne ad essere “più forti”, perché appunto più abituate a cavarsela in condizione subordinata. In realtà non è sempre così, né può essere vero per tutte le persone. Questo è chiaro, ma dobbiamo riconoscere le influenze culturali nella costruzione delle nostre identità che condizionano le nostre vite per intero.
Così leggiamo anche nelle parole di Goliarda Sapienza, quando racconta di un giorno in cui la sua compagna di cella Roberta, dopo essersi incontrata con suo marito, torna incupita ragionando sui modi differenti con cui uomini e donne affrontano il carcere.
« -Oggi, per esempio, mi metto questo vestito – l’ho fatto io, per dieci giorni ho lavorato… Ebbene lui s’incazza… “Come puoi avere testa a farti un vestito! Voi donne…” eccetera… Il fatto è, Goliarda, che noi donne reggiamo meglio il sistema carcerario. Certo, questo è possibile perché abbiamo un passato di coercizione e qui in fondo troviamo uno stato di cose che non ci è nuovo: il collegio, la famiglia, la casa… Sappiamo ancestralmente usare le mani, distrarci con mille lavoretti, e accetto anche – come lui dice – che sappiamo essere piú meschinamente furbe… Ma io aggiungo in risposta a lui, che mi si presenta sfessato da far pena, che noi sappiamo rendere creativa la giornata ora per ora, e non solo qui a Rebibbia che in fondo è un paradiso… Certo, il carcere a noi donne risveglia tutti i lati “femminili” che stiamo cercando di seppellire, il carcere forse ci vizia, ci fa regredire… Ne abbiamo parlato tanto con le compagne quando ero a Messina… Ma io dico: facciamo bene noi donne ad affossare tutte le “qualità” che i secoli di schiavaggio hanno sviluppato in noi? Dopo tanti anni di prigione, Goliarda, ti posso garantire che è un errore… Non bisogna dimenticare il nostro passato di schiave…» – Goliarda Sapienza, “L’università di Rebibbia”.
Roberta manifesta nei suoi pensieri quel ruolo interiorizzato di donna-sofferente (quindi più forte) e ci comunica delle contraddizioni e delle negoziazioni con cui ci si confronta nel processo di decostruzione delle identità di genere.
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