La popolazione detenuta femminile in Italia rappresenta circa il 4 per cento del totale, più precisamente, al 31 marzo 2024, come rilevato dall’associazione Antigone, le donne recluse erano 2.619. Un numero basso se messo a confronto con il totale della popolazione detenuta (61.049 persone recluse).
Sappiamo che molta attenzione è data alle persone detenute negli istituti femminili in rapporto alla loro condizione di madri. Che se da un lato rappresenta una risposta necessaria – ma non sufficiente – alla paradossale esperienza di molte bambine e bambini che si trovano a muovere i primi passi nell’ambiente carcerario; dall’altra rispecchia una società che ritiene centrale il diritto di una donna di essere madre a discapito del diritto di una persone di essere e autodeterminarsi come vuole. Vero anche che con il nuovo Ddl Sicurezza, questa gentile accortezza nei confronti delle donne incinte, sembra esser messa in dubbio: proprio alcuni giorni fa infatti la società civile si è espressa contro l’incarceramento delle donne incinte presso il Senato della Repubblica (qui il link).
Oltre alle madri, quando si parla di “donne” nell’Ordinamento Penitenziario?
Sono principalmente due gli articoli dell’Ordinamento penitenziario specifici per la regolamentazione delle persone detenute negli istituti femminili.
- Articolo 14: “Assegnazione, raggruppamento e categorie dei detenuti e degli internati”
“Il numero dei detenuti e degli internati negli istituti e nelle sezioni deve essere limitato e, comunque, tale da favorire l’individualizzazione del trattamento.
L’assegnazione dei condannati e degli internati ai singoli istituti e il raggruppamento nelle sezioni di ciascun istituto sono disposti con particolare riguardo alla possibilità di procedere ad un trattamento rieducativo comune e all’esigenza di evitare influenze nocive reciproche. Per le assegnazioni sono, inoltre, applicati di norma i criteri di cui al primo ed al secondo comma dell’ articolo 42 .
É assicurata la separazione degli imputati dai condannati e internati, dei giovani al disotto dei venticinque anni dagli adulti, dei condannati dagli internati e dei condannati all’arresto dai condannati alla reclusione.
É consentita, in particolari circostanze, l’ammissione di detenuti e di internati ad attività organizzate per categorie diverse da quelle di appartenenza.
Le donne sono ospitate in istituti separati o in apposite sezioni di istituto.”
- Articolo 42-bis: “Traduzioni”
“Sono traduzioni tutte le attività di accompagnamento coattivo, da un luogo ad un altro, di soggetti detenuti, internati, fermati, arrestati o comunque in condizione di restrizione della libertà personale.
Le traduzioni dei detenuti e degli internati adulti sono eseguite, nel tempo più breve possibile, dal corpo di polizia penitenziaria, con le modalità stabilite dalle leggi e dai regolamenti e, se trattasi di donne, con l’assistenza di personale femminile. […]”
Se nell’Ordinamento penitenziario l’attenzione nei confronti delle specifiche esigenze femminili è scarsa, qualcosa migliora con il Regolamento di esecuzione del 2000.
- L’articolo 8 sull’igiene personale
- L’articolo 9 sul vestiario e il corredo
- L’articolo 7 sulla presenza del bidet in cella
Il paradosso di cui parlano Franca Garreffa e Daniela Turco nel focus “Le donne nei Poli universitari penitenziari: ostacoli e prospettive di sviluppo” (Primo Rapporto sulle donne detenute di Antigone) riguarda una doppia tendendenza opposta tra il fuori e il dentro: da un lato, c’è la lotta contro l’abbattimento delle differenze tra i generi, dall’altra il mettere in evidenza le stesse diversità nell’ambito dell’esigenze detentive femminili.
Un paradosso che potremmo complessificare, osservando che l’abbattimento delle differenze non nega le diverse esigenze e ne anzi mette in risalto le problematiche legate al mancato riconoscimento. Non è dunque un problema di per sé la differenza tra i sessi e i generi, ma il diverso trattamento che viene riservato alla componente maschile, la rigidità dei ruoli sociali assegnati, la contrapposizione agonistica tra un noi e un loro e i rapporti di potere che essa genera e che caratterizzano la società contemporanea; sia libera che reclusa, perché, ricordiamolo, apparteniamo tutt3 alla stessa.
Si tratta di quel concetto di equità che dovrebbe essere alla base di uno stato che si dice democratico: non uguale per tutte le persone ma uguale in base alle specifiche condizioni delle persone prese in considerazione.
Istruzione, formazione e opportunità per le persone detenute negli istituti femminili
Pubblicato su Ristretti Orizzonti, l’articolo di Manuela D’Argenio di novembre 2024 per tgcom24.mediaset.it, è introdotto così:
«Le sezioni femminili restano inadeguate, le attività professionali sono poco variegate, l’accesso agli studi non è uguale per tutti: la discriminazione di genere, di fatto, è rimasta immutata. Il carcere come istituzione totale è una struttura pensata per uomini in cui si riscontra, anche nei documenti ministeriali, un’incapacità di rielaborarlo al femminile». (Qui il link)
D’Argenio evidenzia i numerosi problemi esistenti all’interno del sistema carcerario legati alla discriminazione di genere. Le persone detenute negli istituti femminili spesso sono sottoposte a stereotipi e aspettative tradizionali legate al “comportamento femminile”. Infatti vengono introdotte ad attività come il ricamo e l’uncinetto, in contrasto con la maggior offerta di attività prevista per la componente maschile. Un’ulteriore tendenza di differenziazione riguarda l’accesso a opportunità lavorative e formative: esiste infatti un’alta disparità nell’accesso agli studi universitari tra popolazione carceraria maschile e femminile.
Sembra chiaro che il dato numerico inferiore delle detenute e la loro distribuzione nelle sezioni femminili di carceri maschili contribuiscono – insieme alle suddette condizioni stereotipate con cui vengono pensate attività e servizi nell’istituzione penitenziaria – a una visibile marginalizzazione e a una scarsità di percorsi di reinserimento sociale adeguati.
Corpi ristretti e sensi di colpa
Sono meno persone sì, ma sono pure meno strutture. E quindi, se il sovraffollamento carcerario ad oggi è pari al 132% (qui il link), sembra che siamo proprio le carceri femminili a risentirne di più.
Le persone detenute negli istituti femminili si trovano a vivere ammassate l’un l’altra e per di più in strutture pensate per la categoria di genere maschile, il che contribuisce a una mancanza di supporto e di risorse dedicate.
La discriminazione di genere in carcere è radicata nella concezione stessa della pena e nella struttura dell’istituzione che grava nell’emergenza continua data l’assenza di riflessione sulle condizioni di vita interne.
Spesso inoltre è presente quel tipico assorbimento dello “spirito abnegante” caratterizzante il ruolo di accudimento e cura assegnato culturalmente alle persone con utero ancor prima della nascita che si esplicita nel senso di colpa nei confronti di figli, compagni, padri e mariti lasciati fuori. Il senso di colpa può tradursi in atteggiamenti di sottomissione, atti di autolesionismo, suicidi o uso prolungato di psicofarmaci: tutti fattori che sembrano essere più frequenti tra la popolazione detenuta femminile rispetto alla maschile.
Forse la bassa percentuale delle presenze femminili in carcere è uno dei motivi per cui sembra più difficile per le persone di genere femminile in carcere accedere a quei benefici – come corsi di professionalizzazione o universitari – maggiormente preposti per la componente carceraria maschile. Forse, invece, sono gli aspetti di una cultura patriarcale e omotransfobica che sono duri a morire e che condizionano la vita e i rapporti tra i generi sia fuori che dentro il carcere.
O forse, entrambe le cose.
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