Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

Categoria: Carcere (Pagina 2 di 2)

Gli effetti della detenzione sulla salute mentale

MATTEO

La vita in carcere è un’esperienza difficile e impegnativa che può avere effetti significativi sulla salute mentale dei detenuti. L’ambiente carcerario, caratterizzato dalla mancanza di privacy, sovraffollamento e isolamento sociale, può esacerbare problemi preesistenti o causare nuove sfide per la salute mentale dei detenuti. In questo articolo, esploreremo come la detenzione può influenzare la salute mentale dei detenuti e il ruolo vitale dei servizi di salute mentale nelle strutture carcerarie.

 

Equilibrio emotivo: l’ambiente carcerario è spesso ostile, con il costante rischio di conflitti, violenza e isolamento. Questi fattori possono portare a una varietà di problemi emotivi, come ansia, depressione, eccessiva irritabilità e disperazione. La mancanza di controllo sul proprio destino e la privazione di libertà possono causare una sensazione di impotenza, aggravando ulteriormente i disturbi dell’umore.

 

Sovraffollamento e stress: le carceri spesso affrontano il problema della sovraffollamento, con detenuti che condividono spazi ristretti e affollati. Questa situazione può portare a uno stato di stress cronico, influenzando negativamente la salute mentale dei detenuti. Il sovraffollamento può anche aumentare il rischio di conflitti e violenza tra i detenuti, creando un ambiente ancora più pericoloso per il benessere mentale.

 

Isolamento sociale e solitudine: la detenzione può portare a una sensazione di profonda solitudine, con i detenuti spesso separati dai loro cari e dalla società. L’isolamento sociale può contribuire a sentimenti di abbandono, depressione e ansia. La mancanza di sostegno sociale può rendere difficile affrontare le sfide quotidiane e i traumi associati alla vita in carcere.

 

Traumi e PTSD: alcuni detenuti possono essere stati esposti a esperienze traumatiche prima o durante la detenzione, come abusi, violenze o eventi drammatici. Questi traumi possono portare allo sviluppo di disturbi da stress post-traumatico (PTSD), che richiedono un’attenzione specifica per il trattamento all’interno dell’ambiente carcerario.

 

I servizi di salute mentale nelle strutture carcerarie possono svolgere un ruolo cruciale nel supportare i detenuti con problemi di salute mentale. Questi servizi includono valutazioni e screening per identificare tempestivamente i detenuti che necessitano di assistenza. Inoltre, offrono terapie individuali e di gruppo per aiutare i detenuti a gestire i problemi emotivi e a trovare supporto reciproco tra pari.

 

La formazione del personale carcerario è essenziale per riconoscere i segni di problemi nei detenuti e rispondere in modo adeguato alle emergenze mentali, favorendo un ambiente più comprensivo e empatico.

 

In conclusione, la detenzione può avere effetti significativi sulla salute mentale dei detenuti, creando sfide emotive e psicologiche. Tuttavia, investire nei servizi di salute mentale nelle strutture carcerarie può aiutare a mitigare tali effetti e promuovere una migliore qualità della vita all’interno del carcere. Ciò contribuisce anche a una maggiore possibilità di riabilitazione e di reintegrazione sociale dopo la scarcerazione, avvicinandoci a un sistema penitenziario “più umano”.

Il caldo in carcere: estate ristretta e tattiche di sopravvivenza

ALESSIA

Come sopravvivere al caldo asfissiante di questi mesi in carcere? Già la scorsa estate, Antigone scriveva delle condizioni di inadeguatezza con le quali le strutture penitenziarie italiane si trovano a fare i conti. 

«Alla questione affollamento si accompagnano anche questioni strutturali che riguardano gli istituti. In alcuni l’acqua viene razionata, come ad Augusta, oppure manca del tutto, come a Santa Maria Capua Vetere, che nasce scollegata dalla rete idrica comunale. In questo istituto ai detenuti vengono forniti 4 litri di acqua potabile al giorno mentre per le altre necessità è utilizzabile l’acqua dei pozzi artesiani.»

Il sovraffollamento delle carceri italiani conduce inevitabilmente a una riduzione notevole degli spazi ostici e già ristretti delle celle, il cambiamento climatico in corso che fa parlare dell’Italia in tutto il mondo per le assurde temperature raggiunte in queste ultime settimane, non risparmia di certo neanche l’eterotopia del carcere. Con il termine “eterotopia” abbiamo voluto intendere il carcere, con Michel Foucault, come uno di quei “luoghi reali, riscontrabili in ogni cultura di ogni tempo, strutturati come spazi definiti, ma «assolutamente differenti» da tutti gli altri spazi sociali, dove questi ultimi vengono «al contempo rappresentati, contestati, rovesciati»” (Treccani). Guardando ai numeri, raccolti nel XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, a fine aprile 2023 la popolazione detenuta si componeva di 56.674 presenze con un tasso di affollamento medio del 110,6%.

 

«Quanto costerebbe mette un condizionatore come questo pure sopra?» ha detto G osservando il condizionatore della stanza dei corsi in carcere. Abbiamo chiesto ai nostri amici di dentro come stanno affrontando questo periodo infernale tra le mura delle proprie celle. G in particolare sembra non riuscire a sopportare il caldo, chiede al suo compagno B di aiutarlo a rasare tutti i capelli e racconta della sua stanza: con il letto attaccato al muro, un muro spesso che racchiude il calore, percepibile al tatto.

 

La cosa che più mi stupisce dell’ambiente del carcere è sempre la semplicità con cui le persone che lo abitano si ingegnano per rendere le condizioni di vita di dentro più dignitose e il più possibile vicine alla “normalità”. Sono pratiche definibili come tattiche, tutte quelle azioni volte a r-esistere all’interno di un mondo costellato da rigide strategie di controllo e sorveglianza. Così, quando il nostro G si è lamentato per il caldo in carcere, l’amico D gli ha dato la soluzione: «apri la doccia del bagno, la punti sul ventilatore ed è come avere l’aria condizionata in cella. Dopo ti faccio entrare nella mia e ti faccio vedere». 

 

B anche ha affermato di aver utilizzato questa tattica, ma non a cuore leggero, perché «si spreca un botto di acqua così, infatti mi sento in colpa e dopo massimo mezz’ora spengo». Concordiamo con B sullo spreco dell’acqua che sappiamo essere preziosa risorsa a rischio, ma ci chiediamo quali potrebbero essere le alternative ecologiche di sopravvivenza al caldo del carcere? 

L’arte terapia negli istituti penitenziari: l’espressione creativa come mezzo di libertà

MATTEO

L’arte terapia nasce come disciplina nel corso del XX secolo, in particolare negli anni ’40 e ’50. Viene attribuita principalmente a due figure fondamentali: Adrian Hill e Margaret Naumburg .


Adrian Hill, un pittore britannico, è considerato uno dei pionieri dell’arte terapia. Durante la sua esperienza in un sanatorio per tubercolosi, Hill notò come il disegno e la pittura lo aiutassero a superare la malattia e a gestire il dolore e lo stress emotivo.

Attraverso il suo lavoro, Margaret Naumburg, una psicoanalista statunitense cercò di integrare il processo creativo con la psicoanalisi, permettendo ai pazienti di esprimere i loro conflitti interiori attraverso l’arte. Nel 1943, fondò la Walden School di New York, una scuola che integrava l’arte terapia nell’educazione dei bambini.

Negli anni successivi, l’arte terapia ha continuato a evolversi come disciplina, con il contributo di molti altri professionisti nel campo della psicologia, della psicoterapia e delle arti creative.

Oggi, l’arte terapia è riconosciuta come un approccio terapeutico valido e viene utilizzata in una vasta gamma di contesti clinici, inclusi gli istituti penitenziari, per promuovere l’empowerment personale e il benessere emotivo.

Cos’è l’Arte Terapia?

L’arte terapia è una forma di terapia che utilizza l’espressione artistica come mezzo di comunicazione e di guarigione. Attraverso vari mezzi espressivi come la pittura, il disegno, la scultura e l’artigianato, gli individui possono esplorare e rielaborare i propri sentimenti, pensieri ed esperienze attraverso il canale non verbale. Si viene a creare uno spazio sicuro e creativo in cui le persone possono esprimere se stesse liberamente, promuovendo l’autoriflessione e la relazione d’aiuto.

Le artiterapie negli Istituti Penitenziari:

Negli istituti penitenziari, i laboratori di artiterapie offrono una via percorribile per superare le difficoltà e le sfide emotive associate alla vita in detenzione. I detenuti possono sperimentare sensazioni di isolamento, rabbia, frustrazione e persino disperazione. Le arti terapie forniscono loro uno spazio dove possono liberare queste emozioni e cambiare il punto di vista da cui guardare, anche in un penitenziario.


L’arte terapia negli istituti penitenziari mira a migliorare il benessere emotivo dei detenuti, a riscoprire la propria identità e le proprie risorse. L’Arteterapia promuove la riabilitazione e la reintegrazione nella società. Attraverso l’espressione creativa, i detenuti possono sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, una migliore gestione delle emozioni e una prospettiva positiva sul loro futuro.

 

In conclusione, l’arte terapia negli istituti penitenziari offre ai detenuti la possibilità di esplorare la loro creatività, trovare un canale emotivo innovativo e sviluppare competenze personali significative. Attraverso questa forma di terapia, i detenuti possono intraprendere un percorso trasformativo capace di aprire le porte alla riscoperta di sè, all’autostima, e al reinserimento sociale. Le arti terapie dimostrano come l’espressione artistico-creativa possa far contattare quel senso di libertà anche in una condizione di mancata libertà, come quella detentiva.

La magistratura dagli occhi di un condannato

La magistratura  secondo L

Noi carcerati (non io per la verità, la pena la sto scontando) vediamo sempre la figura del magistrato con un comprensibile livore, più esattamente con un pregiudizio ideologico.

Una riflessione ampia sulla magistratura: attenzione al giudizio più che al pregiudizio

Dopo Cutro e a seguito degli accadimenti a largo della Grecia, l’Associazione Nazionale dei Magistrati ha giustamente fatto notare che non è possibile accusare di un reato chi fugge da un paese perché privato della libertà. Nessuna norma, sostengono, potrà mai impedire l’obbligo di salvataggio in mare perché non è possibile impedire ad alcuno di fuggire da paesi dove non è riconosciuta la dignità umana. Sono principi bellissimi. 

Stiamo parlando della stessa associazione tanto invisa alla classe dirigente “garantista a corrente alternata”. Una classe politica severissima e feroce con gli ultimi, i marginali, gli “sfigati” insomma, un po’ meno con i “colletti bianchi”. Abolizione dell’abuso d’ufficio docet

Vorrebbero addirittura, questi “politicanti” portare le pene relative allo spaccio di droghe leggere da 3 a 5 anni. Come ha fatto notare qualcuno nei giorni scorsi (PalmaGarante nazionale privati libertà) nulla è stato fatto con la nuova riforma per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Questo è un paese dove se “sporchi” con la vernice lavabile qualche muro per sollevare il dibattito sull’emergenza climatica, rischi il carcere, ma se inquini il territorio con la cementificazione e i pesticidi ti premiano addirittura per aver contribuito ad alzare il PIL, come ha fatto notare qualcuno.

E poi perché crocifiggere sempre i magistrati, anziché il legislatore?

Proviamo soltanto ad immaginare cosa accadrebbe se il “disegno trentennale” del cavaliere, quello di rendere subalterna la magistratura al potere politico, si dovesse realizzare …

Gli ultimi, ed in carcere sono la maggioranza, marcirebbero in galera con buona pace dell’Articolo 27 della Costituzione che vorrebbe il reinserimento e la rieducazione del detenuto.

Non è forse questo l’auspicio di Salvini?

La magistratura sulla tortura

Ad onor del vero anche la magistratura ha le sue responsabilità: ricordiamo Enzo Tortora.

Non possiamo però non riconoscere altri magistrati che condannarono chi torturò Cucchi. Altri stanno indagando sulle torture ai danni di “fermati” poste in essere da alcuni poliziotti della questura di Verona. Abbiamo tutti visto con stupore le foto di quei maltrattamenti.

La riforma recentissima sulla Giustizia, oggi non consentirebbe più la pubblicazione di quelle foto. Per non parlare dei maltrattamenti a Santa Maria Capua Vetere, nessuno avrebbe saputo di quei misfatti se quel giorno un uomo nell’immediatezza di quei fatti non avesse preteso (a seguito di una segnalazione anonima) di entrare in quel carcere.

Quell’uomo era un magistrato!

 

Al di là di certe innegabili criticità, la magistratura è e deve restare un presidio di legalità. Siamo detenuti per le condotte illegali che poi un magistrato ha accertato. Non dimentichiamolo. Il “giudizio” sulla magistratura deve essere più forte del pregiudizio.

Per un detenuto è “impopolare” scrivere queste cose, ma vanno scritte e l’ho fatto!

M49 L’orso

L’educazione in carcere come chiave del reinserimento sociale dei detenuti

MATTEO

L’educazione in carcere è un argomento di cruciale importanza che merita particolare attenzione perché riguarda il benessere e il futuro non solo dei detenuti, ma anche delle loro comunità e della società nel suo complesso.

In questo articolo, esploreremo l’importanza dell’educazione in carcere e in che modo essa possa contribuire a un cambiamento positivo nella vita dei detenuti.

Mentre le prigioni svolgono il ruolo di punizione e sono ruoli con un alto livello di sicurezza, è fondamentale riconoscere il potenziale trasformativo dell’istruzione all’interno di queste strutture. L’educazione può rappresentare una vera e propria svolta nella vita dei detenuti, fornendo loro le competenze necessarie per il reinserimento sociale, riducendo la recidiva e creando opportunità di crescita personale. Ma vediamo insieme in che modo:

Riduzione della recidiva attraverso l’istruzione

Numerosi studi dimostrano che i detenuti che partecipano a programmi educativi hanno maggiori probabilità di trovare lavoro dopo il rilascio e di mantenere un percorso di vita lontano dal crimine. Acquisire competenze di base come la lettura, la scrittura e la matematica, insieme a competenze professionali, fornisce ai detenuti una base solida per costruire una vita migliore una volta fuori dal carcere.

L’educazione in carcere per la crescita personale e autostima

L’educazione in carcere non riguarda solo l’acquisizione di conoscenze pratiche, ma può anche promuovere la crescita personale e l’autostima. Attraverso il processo di apprendimento, i detenuti possono scoprire nuove passioni, sviluppare l’autostima e costruire una visione positiva del loro futuro. L’educazione offre loro l’opportunità di reinventarsi e di costruire una nuova identità basata sulle competenze acquisite.

Preparazione per il reinserimento sociale

Il periodo di detenzione rappresenta una pausa forzata nella vita di un detenuto, ma può anche essere un’opportunità per prepararsi al ritorno nella società. L’educazione in carcere aiuta i detenuti a sviluppare competenze sociali, migliorare la capacità di risolvere problemi e apprendere strategie di gestione dell’ira e del conflitto. Queste abilità sono fondamentali per affrontare le sfide che si presentano al momento del rilascio e per integrarsi positivamente nella comunità.

Le opportunità di apprendimento e riscatto dell’educazione in carcere

L’educazione in carcere offre ai detenuti l’opportunità di riscatto e di rompere il ciclo del crimine. Attraverso l’apprendimento, possono dimostrare un impegno per il cambiamento e mostrare che sono disposti a investire in se stessi. Questo può avere un impatto positivo sulla percezione della società verso i detenuti e sulla loro capacità di reintegrarsi come cittadini responsabili. L’educazione in carcere offre una via per la redenzione e la possibilità di costruire una vita migliore.

In questo contesto, è importante promuovere l’accesso all’istruzione all’interno delle strutture carcerarie e fornire risorse adeguate per sostenere tali programmi. Solo attraverso un impegno collettivo possiamo aprire le porte a un futuro migliore per i detenuti e per la società nel suo complesso.

L’educazione in carcere ha il potere di cambiare vite, rompere cicli di criminalità e creare un impatto positivo sulle comunità. Dobbiamo considerarla come un investimento nell’umanità, perché quando i detenuti acquisiscono conoscenze e competenze, diventano membri produttivi della società e hanno la possibilità di costruire una vita migliore per sé stessi e per le loro famiglie.

Attraverso programmi educativi mirati, sostegno emotivo e opportunità di reinserimento sociale, possiamo aprire nuove strade per le persone “di dentro” e costruire una società più equa.

È vietata la tortura: il XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione

ALESSIA

Ogni anno l’associazione Antigone raccoglie il frutto del suo prezioso lavoro nel Rapporto sulle condizioni di detenzione che delinea la situazione delle persone ristrette nelle Carceri d’Italia e apre a più ampie considerazioni e riflessioni sulle tematiche che maggiormente incidono sulla vita di chi sta dentro. Il diciannovesimo Rapporto di Antigone, come si evince dall’imperativo che fa da titolo “è vietata la tortura” reca tra gli approfondimenti il focus sul reato di tortura, la quale esistenza è stata recentemente messa in discussione. 

 

«Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». 

 

Con l’articolo 613 bis è stato introdotto nel codice penale italiano il reato di tortura. Così, dal 14 luglio 2017 l’associazione Antigone ha ricevuto numerose denunce da parte di persone detenute che hanno dichiarato di essere state vittime di azioni di violenza.  

Come riportato nel Rapporto di Antigone, prima di questa data, il nostro ordinamento non contemplava neanche la parola “tortura”, per l’utilizzo della quale l’associazione stessa si è battuta a lungo: non possiamo chiamarle botte, percosse o minacce, è tortura. Tortura che per definizione dell’attuale codice penale consiste in tutta quella serie di azioni che producono una profonda sofferenza fisica e/o psichica alle persone già prive della propria libertà. Dunque violenze di ogni genere, intimidazioni continue e durature nel tempo considerate – a buon ragione – fattori di degrado per la dignità della persona che le subisce. 

 

Di fronte alle Nazioni Unite, nel 2010 “al vaglio dello Human Rights Council” l’Italia si opponeva all’istituzione del reato di tortura per quelle stesse motivazioni che alcuni oggi tentano ancora di proporre: «la legislazione italiana ha disposto misure sanzionatorie a fronte di tutte le condotte che possono ricadere nella definizione di tortura (…). Pertanto, la tortura è punita anche se essa non costituisce un particolare tipo di reato ai sensi del codice penale italiano». Solo due anni più tardi, è stata la mano di un giudice a riaprire la ferita. 

 

Nel 2012, durante un processo seguito dall’associazione Antigone due persone ristrette nel carcere di Asti denunciavano di essere stati vittime di gravi atti di tortura. 

«I fatti avrebbero potuto agevolmente qualificarsi come tortura (ma) in Italia non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura». Quel “ma” ha un peso così importante. Pesa ancora oggi, se si pensa a tutte quelle persone che prima del 2017 non avevano alcun potere di fronte alle azioni di violenza prolungate nel tempo dai propri carnefici i quali gesti, seppure accusati, non sarebbero stati riconosciuti dalla legge come atti di tortura. Quelle azioni di tormento, ad oggi penalmente punibili, potrebbero tornare ad essere “legittimate” perché, qualcuno ha detto, la legge sul reato di tortura impedirebbe agli agenti di fare il loro mestiere… quello di infliggere supplizi?

La sentenza del 2012 e le parole del giudice hanno inevitabilmente fatto luce sulla mancanza di strumenti giuridici per rispondere alla tortura e ha richiamato l’attenzione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, grazie al cui necessario intervento dopo cinque anni è stato introdotto l’articolo di cui sopra.  

 

«Un testo non perfetto, ma che permette oggi di pronunciare quella parola nelle aule di tribunale. Tornare indietro non si può, come fortemente abbiamo voluto sottolineare con il titolo del presente Rapporto» – c’è scritto nel Rapporto di Antigone.

Non si può tornare indietro, sarebbe contro ogni principio e senso di umanità, ingiustamente scorretto nei confronti delle persone che nonostante siano recluse per aver commesso reati, restano persone appunto.

D’altronde, concordiamo con  Zerocalcare: i principi non vanno a simpatia.

 

Lavoro in carcere

LIVIA

Per varie vicissitudini di vita e lavoro da lungo tempo non entravo in carcere.

Carcere che è stata presenza quotidiana in tutta la mia vita lavorativa.

Ora da un mese ho varcato nuovamente quelle soglia, dopo quasi 20 anni non mi fanno più effetto i cancelli che si chiudono, le chiavi, i rumori e i silenzi.

Ma non mi sono assuefatta alle persone, per fortuna direi.

Abbiamo organizzato un corso di formazione e prendervi parte ancora mi provoca emozioni e sensazioni. Guardo i partecipanti, uomini più o meno adulti e più o meno stanchi, i loro occhi, le loro mani, i sorrisi a volte timidi e altre sfrontati; ascolto le loro parole, i loro racconti, le loro domande e mi rendo conto di come sia un’esperienza formativa non solo per loro che partecipano come beneficiari ma anche per noi che ci troviamo dall’altra parte.

Sto conoscendo persone nuove e ne ho reincontrate di già conosciute in passato sempre all’interno di altri istituti penitenziari; a loro volta mi ricordano periodi, sensazioni, volti, episodi lontani nel tempo ma vividi nei ricordi.

L’impatto è più forte di quanto pensavo e capisco che lo scambio umano che questo lavoro mi offre ancora mi riempie il cuore e mi affolla la testa di riflessioni e pensieri.

Riesco ancora a guardare le persone prima del reato che hanno commesso, riesco ancora a sospendere il giudizio e a trovare il lato positivo. Riesco ancora a dare una parte di me e a mettermi io per prima in discussione.

Durante le mie prime settimane di lavoro nella cooperativa PID, nel lontano 2003, mi è capitato di partecipare ad un convegno sul Terzo Settore e di ascoltare le parole appassionate e calorose di Don Ciotti che con enfasi diceva che fino a che questo lavoro continua a far ridere, piangere, emozionare, indignare, arrabbiare ha un senso continuare a farlo.

Ecco, per me è ancora tempo di svolgerlo.

Un passo indientro

LE PAROLE DI L
Con l’emergenza sanitaria Covid-19 le persone semilibere hanno avuto la possibilità di usufruire della licenza premio straordinaria, gli è stato permesso di stare fuori sia giorno che notte anche se con delle misure di controllo; questa occasione ha rappresentato il concretarsi di un principio di vita “normale”. Per circa due anni e mezzo, queste persone hanno vissuto fuori, ma nel momento in cui – con la chiusura dell’anno 2022 – non è stata rinnovata la  misura contenuta nel decreto Cura Italia sono tornati nella loro cella. Come L, sono in 700 i detenuti che sono tornati in carcere dopo aver vissuto fuori negli anni della pandemia. Questa è la sua testimonianza del passo indietro che sente di aver dovuto compiere.

Quando parlo di questa cosa mi viene la pelle d’oca. Non ho pianto per vergogna, avevo un magone dentro. La sera del 31 dicembre alle 20:00, ho dovuto prendere la valigia qui alla struttura dove stavo da 2 anni e mezzo e tornare in carcere. Con la moto vedevo passare la gente che andava a mangiare, a festeggiare e io che tornavo a dormire lì.

Un’esperienza così non l’ho mai fatta. Io sono stato in carcere tanti anni, ma tornare lì dopo due anni e mezzo non potete capire quanto mi ha fatto male. 

Ma sapete perché? Perché io in questi due anni e mezzo mi sono comportato così bene, non ho fatto mai nulla di male: lavoro e casa. Ho fatto un passo indietro così, mi hanno fatto fare un passo indietro e non lo capisco perché io mi comporto bene e invece di essere trattato meglio, mi ritrovo a passare di nuovo le notti in carcere?

 

La prima notta non ho dormito. Non mi trovavo più in quello spazio, già da quando hanno iniziato a chiudere il blindato, io mi sono sentito proprio strano. Mi è sembrato come se fossi entrato in carcere per la prima volta, tentavo di dormire ma non ci riuscivo. Un’esperienza bruttissima, mi è stato detto “Dai, dopo tanti anni che ci hai passato, mo’ per una notte è possibile che stai così?”. Sì, perché io ero convinto fosse finita. Come me, tutte le persone che sono rientrate il 31 dicembre scorso. Ne ho incontrato uno che piangeva al rientro, ho cercato di consolarlo ma ero come lui in quel momento dentro. 

Volevo piangere più di lui.

Ormai sono passati quattro mesi, per fortuna in qualche modo mi sono riabituato

So’ tornato. Ho incontrato molte persone dentro che conoscevo da anni, anzi sono capitato nella stessa cella dove ero prima! Non voglio ammorbarvi con questa brutta storia, ma seriamente penso che se a oggi mi chiedessero se volessi ottenere una nuova proroga per passare più tempo fuori (un altro decreto emergenziale) direi di no. Perché ho paura, se poi dovessi tornare nuovamente? Non so se riuscirei a reggere, non è facile. Un’altra botta di queste, psicologicamente mi ammazza

 

Ora ho avuto la notizia più bella che mi hanno fissato l’udienza per ottenere l’affidamento a maggio. E sono tornato dalla mia famiglia in permesso, dopo una vita! 

Come prima cosa sono andato a trovare tutte le belle persone che conoscevo e che quasi non riconoscevo più perché molti me li ricordavo bambini. 

Due giorni che non ho dormito nulla, a casa mia c’erano sempre persone, una tavola infinita. 

Ho conosciuto i miei nipotini, una gioia immensa.

Uso o abuso? Gli psicofarmaci in carcere

L’utilizzo quasi regolamentare degli psicofarmaci in carcere è una verità di cui l’opinione pubblica è ormai consapevole, un tema affrontato dai media più volte dal quale emerge una realtà che ci lascia perplessi nella sua apparente immutabilità.

«C’è chi il carcere se lo fa dormendo»

Una frase che ho sentito dire spesso, sia dagli educatori che dalle stesse persone detenute, autori del nostro blog. 

«Una terapia con l’arte, invece che con le pillole!» 

Ha affermato L. durante la presentazione del corso di Arte Terapia che stiamo svolgendo all’interno della Terza Casa Circondariale di Rebibbia

«Questo servirebbe pure a noi, invece che gli pissicofarmarci. Io non li ho mai presi, ma veramente c’è gente che ci campa così dentro» 

Ha sostenuto S., commentando un incontro di antropologia medica, in cui si parlava dell’importanza anche di una carezza in un percorso di cura

 

Queste parole ci esprimono nel modo più semplice e immediato una consapevolezza generalizzata della normalizzazione dello psicofarmaco come strumento per affrontare il dolore del carcere.

Un dolore silenzioso che quasi non si vede e che si preferisce far tacere, ingoiando un antidoto che anestetizza e che insieme alla dipendenza assopisce e rende inermi: deboli di comunicare, scegliere e persino pensare.

Approfittando della recente lettura de “Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario.” di Luca Sterchele, ho deciso di dedicare al tema una breve e umile riflessione, allo scopo di portare alla luce una realtà generatrice di disagio che oltre lo sdegno immediato dei molti, ci lascia ancora una volta una sensazione di impotenza.

Quello che viene evidenziato dal sociologo è prima di tutto una diffusa sensazione “di allarme” per cui, in seguito al superamento degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) con la legge 81 del 2014 e alla conseguente istituzione delle strutture REMS (Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza), sembra esserci nelle carceri italiane un aumento dei detenuti “psichiatrici”. Come se il carcere fosse diventato il nuovo manicomio

Per alcuni, lo stato di allarme risulta essere confermato dall’elevato numero degli psicofarmaci consumati in carcere ma come sottolineato all’interno del testo succitato, l’utilizzo dello psicofarmaco sembrerebbe rientrare anche tra le tecniche di governo del personale penitenziario al fine di tenere la popolazione detenuta in una condizione di calma e tranquillità, per non avere situazioni spiacevoli come reazioni violente o confusionarie. 

La ricerca di Sterchele suggerisce, attraverso la narrazione frutto dell’osservazione partecipante, l’esistenza di una sorta di regolazione interna della prescrizione dei farmaci a fronte della massiccia richiesta da parte dei detenuti. Alla carenza di personale, di spazi e misure per le “persone psichiatriche” recluse all’interno delle varie Case Circondariali italiane, si aggiunge il malessere fisico e psicologico degli stessi detenuti, i quali richiedono appunto qualcosa che “indebolisca” la sofferenza del vissuto ristretto (concernente la sfera relazionale, le vicende giudiziarie che li riguardano o semplicemente gli eventi della vita quotidiana) e di conseguenza le «capacità del soggetto sofferente di far fronte in maniera efficace a queste stesse contingenze».

Sembra che uno dei principali motivi per cui vengono richiesti gli psicofarmaci sia l’insonnia, infatti negli scaffali della farmacia di una delle strutture penitenziarie osservate dal sociologo nel 2018 vi sono principalmente ansiolitici con effetti calmanti: Valium, Xanax, Lormetazepam (Minias), Lorazepam (EM) ecc. Il carcere come luogo insonne è in realtà raccontato anche dai nostri autori che spesso, parlando delle notti in cella, mi hanno confermato che non si dorme

«Ad occhio – spiega la caporeparto al ricercatore – vengono consumati circa 120 flaconi di Diazepam a settimana, e, sempre ad occhio, sui 30/40 di EM. Al momento sono presenti circa 500 detenuti». Oltre questi dati approssimativi, ci si deve rendere conto che la questione psichiatrica in carcere è sicuramente molto più complessa e frammentata di quanto si possa credere. Da un lato, l’assenza di misure effettive per le persone che hanno patologie o che presentano gravi dipendenze dalle droghe già “da fuori”; dall’altro l’abitudine di assopire e rendere più facilmente governabile la popolazione ristretta.

 

Il discorso è senza dubbio da approfondire, oltre che con la lettura del libro qui brevemente illustrato, anche attraverso future narrazioni che tenteremo di formulare soprattutto per quello che concerne una sorta di razzismo patologizzante per cui si tende a prescrivere psicofarmaci più facilmente alle persone straniere recluse, a volte solo a causa di una difficoltà di comunicazione che si traduce in un banale “questi sono tutti matti”.  

ALESSIA

Undici anni al 41 bis

LE PAROLE DI C

Vorrei parlare del 41bis che nasce come una misura emergenziale nell’estate del 1992 per contrastare gli attentati mafiosi nei confronti dello Stato italiano e fu emanato decreto emergenziale e introdotto nel codice penitenziario, motivato dall’emergenza del momento. 

Nell’estate del 2008 il decreto emergenziale è stato tramutato in Legge dello Stato.

Quindi cos’è il 41bis?

Le persone che al loro arresto vengono sottoposte a tale regime carcerario subiscono misure restrittive che quotidianamente vanno al di là del confine tra il lecito e l’illecito, superando i limiti della Costituzione italiana.

Il 41 bis nasce per controllare le comunicazioni di una minima parte di detenuti, circa 750.

All’interno di ogni carcere che dispone di una sezione 41 bis, c’è una zona che si chiama area riservata, dove vengono ristretti quelli che vengono ritenuti i capi mafia, come per esempio Raffaele Cutolo o Totò Riina.

Controllo della comunicazione del detenuto sottoposto al 41bis

Gli unici modi che il detenuto ha per comunicare sono il colloquio e le lettere.

Attraverso il colloquio di 1 ora ogni mese, quindi 12 colloqui l’anno, il detenuto può parlare con la propria famiglia da dietro un vetro blindato. Il detenuto che ha un figlio può vederlo senza vetro: viene chiuso in una stanza con il bambino, dopo essere stato perquisito a fondo, questo per i bambini fino a 12 anni ma possono stare solo 10 minuti. 

Ogni incontro è registrato, non è possibile neanche fare gesti, perché potrebbero essere segnali per ad esempio ordinare un colpo.

Poi si può scrivere alla propria famiglia e alle persone libere ma è vietato avere corrispondenza con altri detenuti.

Ogni lettera da inviare va consegnata aperta perché la posta è sottoposta a censura: per esempio, a volte,  io usavo scrivere proverbi e modi di dire… se l’agente che era preposto alla censura nel leggere la mia lettera notava un linguaggio criptico, la lettera veniva sequestrata e inviata al Magistrato di sorveglianza.

Il detenuto di quella lettera non saprà più nulla.

La mia esperienza personale

Durante la mia detenzione al 41 bis durata 11 anni fu discusso diverse volte se prorogare o revocare la misura. L’applicazione regime differenziato mi fu revocata: durante l’udienza il Pm fece riferimento a tutte le sanzioni disciplinari ricevute da me tra cui alcune denunce, ma il Giudice rispose: «Va bene procuratore, sappiamo come vengono trattati i detenuti nei reparti 41 bis,  quindi andiamo avanti non soffermiamoci su questo punto, giusto?»

Quindi in quel momento compresi che i giudici sono a conoscenza della realtà che si vive dentro. Non che cambiasse qualcosa, ma è stato importante sapere per certo che un Presidente di un tribunale durante l’udienza dove si discuteva se rinnovare o revocare un provvedimento di regime differenziato, fosse consapevole di come sono trattati i detenuti al 41bis, infatti mi fu revocato.

È vero forse che il 41 bis serve a controllare la comunicazione dei detenuti, almeno quella piccola parte, ma il resto di quelle regole del regime differenziato sono solo abusi volti a distruggere l’identità di una persona. Ad esempio, cosa c’entra l’imposizione degli indumenti intimi, delle calzature, del vestiario con la sicurezza? 

Attraverso il racconto di alcuni episodi vissuti, C spiega le particolari condizioni in cui il detenuto del 41bis vive la propria reclusione. Alcune misure possono risultare assurde e prive di significato, altre sembrano invece costruite appositamente per umiliare e spaventare la persona detenuta.

Al detenuto sottoposto a tale regime è stato quasi sempre vietato cucinare per motivi di sicurezza. Ci sono poi molte altre misure, come per esempio ogni volta che uscivo dalla cella dove ero ubicato dovevo sottopormi –  come tutti gli altri detenuti –  ad una perquisizione, che comprendeva denudazione e altre umiliazioni come fare flessioni e essere perquisito ovunque, perfino in bocca.

Quando devi parlare con il comandante, due o tre agenti ti scortano in ufficio, mentre dentro ad aspettarti ce ne sono degli altri. Una volta entrato, subito ti fanno fare due passi avanti perché devono entrare tutti, con gli agenti dietro le spalle ti ordinano di mettere le mani dietro la schiena. Mentre parli con il comandante sei consapevole di avere dietro di te altre quattro, cinque o sei persone che solo con la loro presenza incutono un senso di timore perché il detenuto in quelle situazioni è sempre in stato di minorità e al minimo errore può subire conseguenze, anche aggressive.

C riflette sul comportamento di alcuni degli agenti che ha incontrato durante il suo percorso, è questo il modo giusto di relazionarsi con il detenuto?

Allora quando succede questo, penso che loro non stanno lì per fare gli agenti ma per fare qualcos’altro. Chi ti autorizza a comportarti in questo modo? Cosa ti ho fatto? 

Ho commesso dei reati gravi? Sì, infatti sto in carcere.

Stare in carcere significa che si deve essere trattati da detenuti non che si debbano ricevere aggressioni o torture psicologiche. 

Mi privi dell’aria, mi privi di guardare il cielo, mi privi di un affetto, mi privi anche della gioia: è proprio così, per un ragazzo di ventiquattro o venticinque anni che dalla sera alla mattina si trova chiuso in quel regime.

E ricorda di quando è stato arrestato, le sensazioni che ha provato: oltre la paura, lo smarrimento di non conoscere il tempo della sua pena nel regime differenziato. 

Io personalmente non è che non ho avuto paura, dico la verità, quando mi hanno caricato sull’aereo per portarmi al 41bis, sapevo che esisteva chiaramente ma non ci ero mai stato. Non è che ho pianto ma dentro di me avevo un po’ di timore.

Quando sono stato arrestato, si è deciso che fossi pericoloso e quindi dovevo andare al 41bis ma neanche mi hanno detto per quanti anni ci sarei dovuto stare

È tutto senza regole. Mi danno il 41bis, prendo l’aereo e vado. All’epoca si discuteva ogni 6 mesi, cioè ogni 6 mesi in tribunale si discuteva la tua pratica: mi davano sempre 2 ore di colloquio al mese e 2 pacchi (con i vestiti e le cose che i miei famigliari potevano inviarmi). Poi hanno fatto un tribunale speciale per discutere il 41bis.

Il caso Cospito e l’abolizione del 41bis

Il caso Cospito secondo me è una battaglia persa perché è diventato uno strumento di propaganda politica (caso Donzelli).

Il 41bis non lo aboliranno mai, al massimo cambieranno delle minime cose interne per dare il contentino a chi non è d’accordo con questo tipo di regime.

Ad esempio abolendo alcuni divieti che riguardano l’alimentazione e tutti i generi che i detenuti del 41bis per circolare interna non possono avere.

Alla fine di tutto, penso che se il caso Cospito andrà così a fondo da portare il brigante o il politico di turno a entrare nel merito del regime, potrà al massimo “addolcire” internamente i detenuti e aumentare magari i colloqui con gli affetti e queste cose qua.

Per argomentare il suo discorso, C fa riferimento alle parole dell’ex magistrato e presidente della Commissione antimafia Luciano Violante in relazione ai detenuti mafiosi reclusi al 41 bis. Poi, esprime brevemente il suo pensiero riguardo alla mafia in generale e al sistema rieducativo del carcere in Italia, sempre riferendosi alla propria esperienza di vita. 

Io penso seriamente che pure il più spietato dei capi invecchia, dopo 40 anni di detenzione. Violante, che secondo me è un uomo che ha detto sempre la verità, ha affermato che i vecchi devono morire e i giovani devono farsi vecchi in carcere

I mafiosi sono il male dell’Italia, sono d’accordo, stanno bene dove stanno però trattateli da umani. Fateci vedere che lo Stato è meglio di loro. Perché io delinquente che mi alzo la mattina e vado a vendere la droga, vado a fare le estorsioni, sono una persona deviata. Posso essere recuperato o meno, è una scelta che devo fare. Se io mi recupero, devo far vedere agli “ex compagni miei” come sto meglio, spensierato che non ho più tutte le preoccupazioni che hanno loro, non devo più stare sempre attento a guardarmi le spalle per paura che in ogni momento possano uccidermi. Perché quello che fai ti viene fatto, non è che c’è tanta alternativa. 

Nel mio caso, credetemi, io avrei avuto bisogno tanto di educatori o psicologi. Sono sempre stato solo e in ogni colloquio che ho fatto non sono mai stato seguito veramente.

Allora mi sono reso conto che è proprio la struttura che non è fatta per farti recuperare, quindi che lo Stato non ti vuole recuperare. Io oggi sono qui, lo devo dire, per la mia famiglia che mi dà sostegno. Le altre persone come me? Ne conosco molti che hanno perso anche le mogli, perché nessuna donna s’imbarca dentro una storia del genere e se tu le vuoi bene le dici di non venire più a trovarti. Restano abbandonati, dalle famiglie e da chi li dovrebbe aiutare. Non c’è speranza, per questo dico che non ci credo. 

E lo dico io perché so molto bene la fortuna che ho avuto e continuo ad avere.

Il mio percorso in carcere

Partendo da un discorso generale sul rapporto di G con il mondo carcerario per intero, nasce un approfondimento sulla sua esperienza personale che vuole stimolare una riflessione sul valore che ha l’atteggiamento pregiudiziale nei confronti dei detenuti e delle detenute, in relazione all’inclusione sociale degli stessi. 

LE PAROLE DI G

Articolo 1 – Ordinamento Penitenziario

“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”

Il tempo per trasferire lo stipendio

G è in semilibertà, ha un lavoro e percepisce lo stipendio come ogni persona che svolge attività lavorativa. Come riceve il denaro un detenuto che lavora? Una cosa poco nota è che ogni detenuto ha diritto ad avere un conto all’interno dello stesso Istituto Penitenziario: per chi è assunto da terzi – pubblici o privati –  l’iter prevede che il pagamento dello stipendio passi per l’Istituto, il quale si occupa di girare successivamente il bonifico sul conto personale del detenuto. 

È possibile che lo stipendio arriva l’8 del mese all’Istituto e a me viene girato il 24? È possibile che mia moglie con la mia famiglia non ricevono soldi in tutto questo tempo? 

Io capisco che è l’iter ma qui si tratta di un bisogno vero, quanto ci vuole per girare la mensilità? Più di venti giorni? E poi il problema è che se provi a chiamare, con tutta la calma e il rispetto possibile loro ti rispondono pure male. Ti trattano come se li scocciassi, come se a me fa piacere stare attaccato al telefono per ricevere quello che è mio e mi guadagno

Loro aspettano che tu sbrocchi e parti con il cervello, questa è la sensazione che ti danno: aspettano per farti rapporto e rispedirti in carcere. Non voglio generalizzare troppo, perché non tutti sono così, non tutti abusano così della loro posizione, fortunatamente. I tempi sono lunghi per tutto, mica solo per ricevere lo stipendio, anche se questo mi preme di più perchè chiaramente va a discapito della mia famiglia. 

Il tempo per ottenere l’affidamento

Il 31 dicembre sono rientrato in carcere e per questo avevo fatto richiesta di Affidamento in prova ai servizi sociali prima (Capo VI dell’Ordinamento Penitenziario – Misure alternative alla detenzione e remissione del debito – Art. 47).

In questo modo dalla struttura in cui ero da circa due anni e mezzo, non sarei più tornato in carcere e avrei potuto finire gli ultimi anni di pena fuori, magari anche a casa con la mia famiglia. Avere la possibilità di non tornare più dentro rappresentava una gioia grande, il fatto che ci sono tornato psicologicamente mi uccide.

Il problema qual è? Anche qui c’è stato bisogno di un tempo infinito per avere una risposta e tanti, tantissimi solleciti al Tribunale di Sorveglianza. Di fatto si tratta di una firma, nel mio caso, perchè i requisiti per ottenere la misura ce li ho tutti però sembra che non ci sia nessuno dall’altra parte a metterla questa firma o anche a non metterla

Ad oggi ho una data per l’udienza, a maggio, dopo lunghi mesi di attesa.

Instaurare una relazione con i detenuti 

Quando si parla con una persona, soprattutto in vista di una rieducazione, devi essere gentile, paziente; non aggressivo. È normale che non deve essere così, perché immaginate di avere un cane chiuso in una gabbia – forse l’esempio è un po’ brutto però è così – se lo trattate male questo cane, non lo accarezzate, gli urlate e non gli date da mangiare, quando esce vi abbaia, vi morde: lo stesso succede per il detenuto.

Le persone che lavorano in carcere non trovano il tempo per ascoltarti, non vogliono o non possono: noi abbiamo mancanza di affetto e nessuno ci fa sentire ascoltati.

Quando è morto mio padre, ero nella mia cella e stavo nervoso, arrabbiato, frustrato. 

Stavo combinando un bel casino, però è arrivato un agente molto buono: una persona veramente umana che mi ha parlato, riferendosi a me per nome invece che con il mio cognome. Mi ha mostrato comprensione per il momento difficile che stavo affrontando e mi ha dato modo di ragionare sul comportamento che stavo avendo, che andava solo a mio discapito. Stavo sempre chiuso, non è che abbia fatto qualcosa di particolare: semplicemente una parola mi ha calmato e mi ha dato quello di cui avevo bisogno – calore ed affetto, infatti poi mi ricordo che sono crollato a dormire. 

In carcere le persone vivono per una lettera

Una lettera, un foglio di carta: la gente vive solo per quello in carcere, lo sapete? 

Fuori non si dà troppa importanza a certe cose.

Quando passa l’addetto alla posta a consegnare le lettere, le persone cambiano umore: dacché stanno tutti a muso lungo, a braccia conserte nelle celle a che si aprono dalla gioia, alla scoperta di cose nuove.

Quando io ricevevo la lettera, ad esempio di mia moglie, sapete che facevo?

Mi organizzavo come se fosse l’impegno più importante della giornata – il che era così effettivamente – mi preparavo la postazione e iniziavo a leggere molto molto lentamente: non volevo che finisse.  Finivo di leggere, la posavo. Dopo un’ora ricominciavo a leggerla. 

Abbiamo sbagliato e io ne sono consapevole, è giusto che paghiamo ma con dignità e umanità. 

Noi per l’opinione pubblica siamo lo scarto degli scarti.

Ma le statistiche parlano chiaro, le persone detenute che hanno avuto l’opportunità di lavorare non hanno più commesso reati. Quindi di che parliamo?

In questo modo tu vai a diminuire la delinquenza e a ricostruire una società diversa, migliore.

Gli educatori in carcere ci sono? 

Dove stavo io c’è solo un’educatrice per un carcere intero! Una sola che deve gestire tantissimi detenuti e molti anche con problematiche serie, come la tossicodipendenza. Come fa? 

Un giorno parlando, e le chiesi: “Dottorè ma come fa adesso con tutte queste persone? Le hanno lasciato un bel carico di lavoro!”. Lei mi rispose: “Dove arrivo metto il punto!”.

E chi paga per questo? I detenuti.

Giustamente lei non può fare altrimenti, quindi il problema è a monte: c’è bisogno di più educatori ed educatrici!

Le contraddizioni del carcere

Le contraddizioni del carcere, secondo E

Il presupposto da cui vorrei iniziare il discorso è che per la sua funzione, il carcere è già di per sé una contraddizione.

Se partiamo da una prospettiva più lontana, dobbiamo dire che è inevitabile che un carcere in una società umana qualsiasi, diventi un posto di isolamento, un po’ come un ghetto. 

A chi serve il carcere oggi? Cos’è veramente il carcere oggi? 

Andando indietro con il tempo, penso alle persone che si ammalavano di malattie particolari e venivano messe da parte, chiuse nei ghetti e isolate dal mondo: poi non importava più a nessuno di loro, potevano vivere o morire ma una volta che venivano chiusi lì, veniva dimenticato il problema. 

Lo stesso accade per il criminale in carcere.

  1. Isolamento ai fini della rieducazione;
  2. L’atteggiamento delle persone che lavorano in carcere;
  3. Povertà e immigrazione;
  4. Le Case Famiglia;
  5. Quando la comunicazione funziona.

Isolamento ai fini della rieducazione

Il concetto di isolamento di ciò che è indesiderato mi fa porre la domanda: se il carcere non ha come fine ultimo quello dell’isolamento e la nostra Costituzione dice che deve essere portato ai fini di un recupero, perché non c’è il ragionamento, la comunicazione e la comprensione dietro al rapporto con il detenuto? 

L’articolo 27 della Costituzione italiana

《L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.》

Questa è anche una contraddizione della condizione umana.

Ognuno di noi ha i suoi difetti e il suo modo di pensare, e tutto questo si ripercuote spesso sul mondo del lavoro, nei rapporti di famiglia e nella vita in generale: allora perchè non lo pensiamo anche all’interno dell’istituzione carceraria?

Ragionare, conoscere e dialogare – non c’è migliore forma per capire l’altro e per far sì che il detenuto ritorni a vivere all’interno di un equilibrio sociale.

La contraddizione sta nel dualismo delle figure interne al carcere: agente – detenuto, che si legge nel rapporto pregiudiziale instaurato tra “io, agente di Polizia Penitenziaria” persona onesta e “il criminale”, colpevole e disonesto. 

Se il carcere è solo una cella, una sbarra dove le persone ti dicono “puoi mangiare questo e non quello” ecc. il recupero, la rieducazione non avviene. Non lo vedo se guardo al nostro paese e ci sono persone che non arrivano a fine mese, che non hanno i soldi per mangiare e che dormono sui cartoni. Ed è questa la più grande contraddizione di una società che genera contraddizioni. Come si può pretendere da una persona che non ha nulla, che una volta uscita fuori dal carcere non commetta nuovamente un crimine? Come può fare a mangiare e a vivere dunque, senza lavoro né possibilità concrete di trovarlo? 

Se si ragiona da esseri umani, guardiamo al detenuto come una persona che sì, ha sbagliato e ha commesso un reato, ma perché l’ha fatto? Dobbiamo interrogarci sul come poter evitare che succeda in futuro o che succeda ad altre persone come lui. Dobbiamo capire cos’è che produce questo: se queste rimangono solo parole ai fini di buone intenzioni che non si traducono in azioni concrete, l’istituzione va a chiudersi e il carcere rimarrà tale.

Questa è la mia visione del carcere. 

L’atteggiamento delle persone che lavorano in carcere 

Voglio mettermi nei panni dell’altro prima di pensare dal mio punto di vista alle persone che lavorano in carcere e al loro atteggiamento di pregiudizio. 

Chi lavora nel carcere deve svolgere la sua attività lavorativa e non ha dunque il tempo di relazionarsi con i detenuti. Non dico che sia giusto ma è un dato di fatto che l’agente penitenziario mantenga un atteggiamento che pregiudica il detenuto. L’agente, o il secondino – come prima venivano chiamati (non che oggi vedo molta differenza tra i due ruoli) – deve sempre presupporre che l’altro voglia altro da lui e che abbia un secondo fine. Ripeto, non è giusto ma è così: perché così è la vita in generale, secondo il mio parere. 

La gente che viene dentro dice semplicemente “Quello è un criminale” e punto. 

Le cose cambiano solo attraverso la comunicazione, per cui si crea un rapporto interpersonale e comincia ad entrare l’umanità in carcere. Questo non avviene, o comunque non avviene per tutti e non sempre. 

Povertà e Immigrazione

La realtà del carcere è variopinta, le persone che incontri dentro sono veramente di tutti i tipi. Voglio guardare in particolare alla povertà che c’è – sia dentro che fuori – e alla situazione di disagio degli immigrati perché è pieno di gente così in carcere. 

Chiediamoci quindi perché?

Il Reddito di Cittadinanza sarebbe potuto essere un vantaggio in questo senso ma hanno creato delle condizioni negative: hanno prima messo dei paletti e poi li hanno calpestati. Alla fine è uscito fuori lo sporco e tutti si lamentano al riguardo e vogliono categoricamente abolire il sussidio, quando invece può ancora essere uno strumento utile, soprattutto per tutte quelle persone che ne hanno veramente bisogno per vivere. In questo senso potremmo ragionare su quanto il RdC potrebbe essere utile anche per impedire che persone in condizioni di estremo disagio economico commettano crimini. 

Per quanto riguarda la situazione degli immigrati in carcere, dobbiamo capire bene perché ce ne sono così tanti: cioè chiederci se l’accoglienza sia reale.

Sono ancora contraddizioni, perché se una persona viene accolta, deve essere accolta nel modo giusto. Sono persone che hanno bisogno di mangiare e di vivere nelle condizioni più dignitose possibili. Nel momento in cui questo non viene predisposto per loro, dallo Stato chiaramente, non ci si può stupire più di tanto se le carceri si riempiono con individui stranieri che vivono disagi reali. 

Ci sono tante questioni per le quali secondo le diverse sfaccettature da cui uno le può guardare, ti portano a vedere che dobbiamo essere noi stessi, o meglio la società per intero e soprattutto chi governa la società – chi fa muovere questa macchina umanitaria nel miglior modo possibile – ad essere umani e a praticare l’umanità. Dobbiamo riflettere bene sull’attenzione che diamo nel confronto con l’altro: alla sua condizione di vita e sentire empaticamente cosa prova e quale sia stato il percorso che l’ha condotto a prendere scelte sbagliate.

Le Case Famiglia

Le Case Famiglia o strutture di accoglienza per detenutə sono forme di assistenzialismo che secondo me, nei fatti muoiono lì. Lo scopo che sta alla base è nobile, ma ancora mi ritrovo a dire che le buone intenzioni non sono sufficienti

Dovrebbero secondo me creare delle strutture, come le Case Famiglia, che siano però convenzionate con le fabbriche: i detenuti per vivere fuori devono poter lavorare. 

Come si risolve il problema? Ci sono le possibilità tecniche ma fino a quando non vengono colte, le strutture di questo tipo restano un punto fermo: è necessario creare una rete in cui alle piccole e medie imprese risulta più conveniente assumere un pregiudicato. Ci deve essere una presa di posizione reale e consapevole dei problemi delle persone, a prescindere dalla destra o dalla sinistra. Fino a quando i nostri rappresentanti politici non inizieranno a pensare alle persone e per le persone, invece che a se stessi e ai loro soldi, le cose non cambieranno.

Quante Case Famiglia per detenutə ci sono a Roma? Non ce ne sono tante, diciamo che saranno una decina? Quante persone possono accogliere? Tre o Quattro. 

Gli spazi in cui si muovono queste strutture sono limitati ed effettivamente è negativo. Non voglio per questo attaccare la Casa Famiglia in sé, ma guardandola dal punto di vista della sua funzione – quella del reinserimento – non vedo quale sia il senso: vedo ancora troppe contraddizioni tra le condizioni reali delle situazioni e la teoria che c’è dietro. 

Quando la comunicazione funziona

Quando sono entrato in carcere avevo 22 anni – sono stato dentro negli anni Settanta: gli anni delle rivolte per i diritti dei detenuti e non solo. La mia pena, inizialmente, doveva essere breve perché ho commesso un piccolo reato, però sono evaso e ho commesso altri crimini all’interno del carcere, accumulando una pena lunga 20 anni.

Vorrei raccontare in particolare la mia esperienza nel Super Carcere dell’Isola ***.

Riparavo le televisioni all’interno di una stanza tutta per me, l’ho fatto per molto tempo ed ero molto felice perché in questo modo svolgevo il mio lavoro. 

Con gli agenti di polizia penitenziaria e i brigadieri è iniziato ad instaurarsi un vero rapporto confidenziale, naturalmente sempre nel rispetto dei ruoli. Dopo tre anni mi portano fuori, per la prima volta, dalle mura del carcere per illustrarmi che avevano bisogno di un tecnico alla centrale elettrica. Non potevo essere più felice: questo per dire che la relazione instaurata tra agente e detenuto è fondamentale per vivere meglio la reclusione e soprattutto ai fini della rieducazione.

La relazione e il dialogo portano alla comprensione e all’esercizio di una pura umanità. 

Non è facile perché le condizioni sono ostative della stessa struttura: va costruito all’interno di essa uno spazio in cui si renda possibile il confronto. 

Finché il sistema penitenziario non cambia struttura e meccanismi di coercizione, fino a quando ci saranno più agenti che educatori all’interno del carcere e il fine sottinteso resterà quello di isolare dalla società le persone che commettono reati e non di reinserirli nella stessa, non ci saranno miglioramenti di alcun tipo. 

Le parole di E
Articoli più recenti »