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Tag: cultura patriarcale

Il tabù mestruale

Ricondividiamo l’articolo di Alessia già edito sulla piattaforma spaziale di FactoryA che vi invitiamo a consultare.

Il tabù mestruale oltre gli stereotipi e oltre le sbarre

Nel 2022 ho sentito per la prima volta parlare della necessità di raccogliere gli assorbenti da donare in carcere alle persone detenute. Ero da poco entrata a far parte della Cooperativa PID Onlus in veste di tirocinante. Sapevo abbastanza poco sia di carcere, sia di mestruazioni. Certo, essendo nata con un utero e socializzata femmina, sulle mestruazioni forse sapevo già qualcosa in più.

 

Dallo scorso anno, grazie al progetto “POSTER. Oltre gli stereotipi” promosso da AIDOS, abbiamo dato vita ad “Assorbire il cambiamento”: una giovanissima iniziativa che ha un obiettivo talmente banale che sembra assurdo definire invece come rivoluzionario: abbattere il tabù delle mestruazioni. E ancora di più, perché non ci basta, far riconoscere alla popolazione civile che quella reclusa, negli spazi ristretti e angusti del mondo che scegliamo ogni giorno di non vedere, vive senza aver garantiti diritti fondamentali. Ad esempio? Le persone con utero in carcere vivono il ciclo mestruale senza un accesso adeguato a servizi e prodotti igienico-sanitari. Per dirla più semplice, in carcere, quando arrivano, arrivano pochi assorbenti e in genere neppure di qualità. Allora ci adoperiamo a parlarne, ma prima sembra doveroso allargare il discorso sul ciclo mestruale, perché quando si pensa al dentro, non si può che non pensare al fuori e viceversa: d’altronde anche se a volte si dimentica, siamo tutt3 parte della stessa società.

 

Il ciclo mestruale

A che serve il ciclo mestruale? Ancora nel XXI secolo, a discapito di tutte le impressionanti scoperte scientifiche, i viaggi interstellari, i cervelli algoritmici, le cure miracolose ecc., non si è trovata una spiegazione reale di quale sia la ragione per cui buona parte della specie umana a intervalli più o meno regolari e per un tempo che copre circa la metà della sua esistenza, sanguina.

 

Cioè sì, sappiamo che è fondamentale per la riproduzione della specie. Perché però ci riproduciamo proprio così non lo sappiamo, in fondo il ciclo non è altro che uno spreco di ovuli distrutti dal mancato concepimento.

 

Sappiamo abbastanza bene come funziona questo processo biologico necessario alla riproduzione. Nell’arco della vita fertile di una persona con utero – in media dai 10/15 anni ai 45/55 – il corpo si prepara ad accogliere una possibile gravidanza attraverso un ciclo di 28 giorni circa che si divide in fasi.

 

  • La fase delle mestruazioni può durare 1-5 giorni, avviene quando l’ovulo del ciclo precedente non viene fecondato, e allora il corpo elimina l’endometrio, lo strato interno dell’utero. Il sangue mestruale è proprio l’endometrio che espelliamo. Non è per nulla piacevole, ma ci si abitua per forza di cose.
  • Nelle due settimane (circa) che seguono le mestruazioni, c’è la fase follicolare: è il momento in cui la ghiandola cerebrale nota come ipofisi secerne l’ormone che dice alle ovaie una cosa tipo “è arrivato il momento di produrre nuovi ovuli”. Solo uno tra questi avrà un posto di rilievo per l’utero che lo investirà di attenzioni, ricostruendone il rivestimento.
  • Poi c’è l’ovulazione. Ah, l’ovulazione! C’è chi l’aspetta come un bambino aspetta la mattina di Natale, chi la evita come si evitavano gli amici medici durante il periodo Covid: forse ci vediamo un altro giorno. Anche questa fase può durare circa 14 giorni ed è appunto il momento in cui il corpo di una persona con utero è più fecondo. Succede che quell’ovulo sistemato e accuratamente rivestito si fa maturo e attraversa la tuba di Falloppio in attesa di uno spermatozoo abbastanza attraente per farsi fecondare.
  • Quando questo non succede, se ci pensiamo quindi la maggioranza delle volte, arriva la fase luteale che dura almeno 15-28 giorni. Il corpo riduce allora la produzione di alcuni ormoni e il rivestimento dell’utero si sfalda: torniamo alla fase delle mestruazioni.

Il rituale del primo menarca

Tutte queste cose le impariamo più o meno a scuola, un po’ forse con le donne della nostra famiglia. Molte cose sul ciclo mestruale io per esempio non le sapevo fino a quando non ho iniziato a lavorare a questo progetto, nonostante “sono diventata signorina” almeno da 15 anni e prevedo di restarci per qualche decennio ancora.

 

Era l’estate della fine delle elementari e già avevo abbastanza ansia di dover affrontare le scuole medie, ricordo che mi preparavo dopo pranzo per andare al mare con mia madre, una sua amica e il figlio che è tutt’ora il mio migliore amico. Avevo il costumino pronto sul letto dei miei genitori, mi sbrigo a spogliarmi per infilarmelo e vedo una chiazza rossastra sulle mutandine. Panico misto a un’euforia che non saprei spiegarmi oggi. Corro da mia madre che al telefono, un po’ stupita dalla scena comica di una bambinetta scioccata con le mutande abbassate e sporche che la guardava con mille emozioni negli occhi, mi dice “vai da papà!”. Lei era impegnata e quindi dovevo farmi aiutare da papà. Questo sì, già ci rende chiaro che mio padre è uno di quegli uomini che si chiede cose tipo “perché ci sono bagni separati per maschi e per femmine?” e che non dice mai cose tipo “non tutti gli uomini…”.

 

Alla fine di questa scenetta simpatica, al mare ci sono andata e fiera sono stata sotto l’ombrellone con il mio assorbente e con i pantaloncini, a guardare il mio amico che triste e confuso mi chiedeva se almeno potevamo giocare a carte anche se non potevo fare il bagno. Quel giorno ricordo di essermi sentita superiore, nel senso di “più grande di te, perché ora io sono una donna”. (Scusa Matt)

 

Abbiamo poi sigillato questo rito di passaggio come da tradizione famigliare con mia madre e mia sorella maggiore, cena fuori e poi cinema: dove mangiare e cosa vedere l’ho scelto io, ero la festeggiata.

Ma festa di cosa?! Per i crampi alla pancia, le fitte ai reni che a volte lasciano senza respiro, i malditesta, il conteggio nevrotico di quanti assorbenti portare per stare in giro tutta la giornata? C’è a chi è andata peggio, per fortuna io posso dirmi tra le persone che hanno un flusso abbastanza regolare, fastidi e dolori il più delle volte non debilitanti, la possibilità economica di comprare gli assorbenti, i tamponi o le coppette che voglio.

Il sangue mestruale è un tabù

Quel sentirmi superiore al mio amico durato una mezza giornata era forse una rivincita metaforica perché nel mondo in cui abito, avrei scoperto poi, il ciclo mestruale è vissuto come un disagio, è un tabù da sussurrare, un peso da portare in silenzio, un odore sgradevole da celare; e aggiungerei, è solo uno dei millemila modi con cui le persone socializzate femmine sono state vittime e fautrici di un sistema dualistico che si basa sulla dominazione di un gruppo sull’altro. Detto più semplicemente, anche il tabù mestruale è prodotto della cultura patriarcale. Per questo, parlarne mi sembra banale e al tempo stesso rivoluzionario.

 

Pensiamo alla differenza con cui ci approcciamo socialmente al fluido riproduttivo maschile. Lo sperma viene “celebrato” e spesso, come ci ricorda Elise Thiébaut, ci viene detto che può avere effetti benefici per la salute di chi lo ingerisce; il sangue mestruale fa schifo. Il sangue può farci ribrezzo, eppure continuiamo a spargerlo per le città nei conflitti di potere, continuiamo a cercarlo nei film e nelle serie o nei videogiochi violenti. Ma quello mestruale è un tabù, nonostante invece che portare morte, doni la vita.

 

La giornalista che ha scritto l’ironico e provocatorio testo che sto leggendo proprio in questi giorni “Questo è il mio sangue. Manifesto contro il tabù mestruale”  ha detto:

[…] il sangue mestruale, afferma oggi la medicina moderna, non ha una funzione precisa quando lascia l’endometrio: è semplicemente il segno di un insuccesso riproduttivo.

Insuccesso anche dal punto di vista biologico, non ci danno tregua! Elise Thiébaut collega questo tipo di informazione che ci viene narrata a un sentimento indotto di vergogna, spiegandoci che

[…] secondo lo psicoanalista Serge Tisseron la vergogna gioca un ruolo socialmente importante: «A differenza del pudore, che non incide sull’autostima, e del senso di colpa, che comporta anche l’angoscia di perdere l’affetto dei propri cari, in più la vergogna minaccia la certezza di continuare a far parte del gruppo». Poiché disorienta ed emargina, la vergogna è – precisa Tisseron – «l’arma privilegiata del dominio su tutti coloro che sono in condizioni di fragilità».

Vivere il ciclo mestruale in carcere

Ed eccoci al dunque. Come vivono le persone con utero il ciclo mestruale in carcere? Una domanda complessa a cui non basta un trafiletto di un articolo web per rispondere. Proviamo a dare qualche informazione base.

La popolazione detenuta femminile rappresenta il 4% della popolazione detenuta italiana totale, ma affronta problematiche legate a un sistema penitenziario pensato al maschile, senza considerare le diverse identità di genere che lo abitano. Gli standard internazionali delle Nazioni Unite (Regole di Bangkok, 2010) promuovono la distribuzione gratuita di assorbenti nelle carceri, ma in Italia l’Amministrazione penitenziaria non garantisce quantità sufficienti né la possibilità di scegliere il tipo di prodotto.

 

Chi lavora e/o ha una rete sociale esterna a sostegno può acquistare gli assorbenti al “sopravvitto”, una sorta di negozio interno al carcere. Chi non ha risorse deve accontentarsi della fornitura minima: uno o due pacchi al mese.

Lascio che a parlare siano alcune testimonianze raccolte durante la scorsa annualità del progetto “Assorbire il cambiamento”, io ho già parlato troppo, come il mio solito.

 

Quando entri in carcere ti viene assegnata una cella, un letto, se nella cella ci sono più persone e ti viene data una “dotazione”: le lenzuola, una specie di asciugamano, un asciughino per i piatti, bicchieri e posate di plastica e una saponetta. Poi, non è detto che te li diano all’inizio, ma comunque puoi chiedere un pacco di assorbenti al mese. Ovviamente sono indecenti come assorbenti, come qualità e soprattutto sono pochi.

Maria

 

Vi dico che prima che uscissi dalla sezione a settembre, gli assorbenti, i vestiti, i prodotti di igiene in generale venivano consegnati solo alle nuove giunte, alle altre no. E se sapevano, a maggior ragione che eri lavorante, ti obiettavano la cosa perché dicevano che non potevi prendere una cosa che toglievi ad altre che non lavoravano e che non potevano permettersi di comprarla. Quindi i materiali rimangono là anche per un nuovo arresto, una nuova giunta. La formula era questa e s’è mantenuta diciamo fino a poco fa, poi mo’ non lo so.

Rosaria

 

Quando sono entrata avevo il ciclo ma non mi hanno dato gli assorbenti. Ho preso il lenzuolo e l’ho strappato poi ho fatto così e via.

-Elena

 

In carcere funziona così, ci si arrangia con quel che si trova. Ti tieni l’assorbente fino a quando regge perché sai che ne hai pochi a disposizione e non sai quando arriveranno altri. Anche quando è estate e il materiale, con il sudore e il sangue in eccesso irrita la pelle.

 

E allora gli assorbenti in carcere servono per restituire alle persone recluse una dignità negata. Per ricordare loro la possibilità di scegliere come gestire il proprio ciclo. Servono perché a fronte delle difficoltà strutturali che devono affrontare nel quotidiano dell’istituzione totale carceraria, almeno non devono pensare a ingegnarsi per permettersi di non sporcarsi durante i giorni delle mestruazioni. E servono per dire che siamo divers3, il ciclo mestruale esiste e vogliamo che i diritti mestruali siano rispettati.

 

Forse non ho stuzzicato abbastanza la tua curiosità, forse sì. In ogni caso, se vuoi far parte del cambiamento ricorda che la raccolta assorbenti per il carcere del PID finisce il 28 maggio. Come puoi partecipare? Qui trovi tutte le informazioni necessarie.

Come il patriarcato influisce sulle vite delle persone detenute negli istituti femminili

La popolazione detenuta femminile in Italia rappresenta circa il 4 per cento del totale, più precisamente, al 31 marzo 2024, come rilevato dall’associazione Antigone, le donne recluse erano 2.619. Un numero basso se messo a confronto con il totale della popolazione detenuta (61.049 persone recluse).

 

Sappiamo che molta attenzione è data alle persone detenute negli istituti femminili in rapporto alla loro condizione di madri. Che se da un lato rappresenta una risposta necessaria – ma non sufficiente – alla paradossale esperienza di molte bambine e bambini che si trovano a muovere i primi passi nell’ambiente carcerario; dall’altra rispecchia una società che ritiene centrale il diritto di una donna di essere madre a discapito del diritto di una persone di essere e autodeterminarsi come vuole. Vero anche che con il nuovo Ddl Sicurezza, questa gentile accortezza nei confronti delle donne incinte, sembra esser messa in dubbio: proprio alcuni giorni fa infatti la società civile si è espressa contro l’incarceramento delle donne incinte presso il Senato della Repubblica (qui il link). 

Oltre alle madri, quando si parla di “donne” nell’Ordinamento Penitenziario?  

Sono principalmente due gli articoli dell’Ordinamento penitenziario specifici per la regolamentazione delle persone detenute negli istituti femminili. 

  • Articolo 14: “Assegnazione, raggruppamento e categorie dei detenuti e degli internati”

“Il numero dei detenuti e degli internati negli istituti e nelle sezioni deve essere limitato e, comunque, tale da favorire l’individualizzazione del trattamento.

L’assegnazione dei condannati e degli internati ai singoli istituti e il raggruppamento nelle sezioni di ciascun istituto sono disposti con particolare riguardo alla possibilità di procedere ad un trattamento rieducativo comune e all’esigenza di evitare influenze nocive reciproche. Per le assegnazioni sono, inoltre, applicati di norma i criteri di cui al primo ed al secondo comma dell’ articolo 42 .

É assicurata la separazione degli imputati dai condannati e internati, dei giovani al disotto dei venticinque anni dagli adulti, dei condannati dagli internati e dei condannati all’arresto dai condannati alla reclusione.

É consentita, in particolari circostanze, l’ammissione di detenuti e di internati ad attività organizzate per categorie diverse da quelle di appartenenza.

Le donne sono ospitate in istituti separati o in apposite sezioni di istituto.”

  • Articolo 42-bis: “Traduzioni”

“Sono traduzioni tutte le attività di accompagnamento coattivo, da un luogo ad un altro, di soggetti detenuti, internati, fermati, arrestati o comunque in condizione di restrizione della libertà personale.

Le traduzioni dei detenuti e degli internati adulti sono eseguite, nel tempo più breve possibile, dal corpo di polizia penitenziaria, con le modalità stabilite dalle leggi e dai regolamenti e, se trattasi di donne, con l’assistenza di personale femminile. […]”

 

Se nell’Ordinamento penitenziario l’attenzione nei confronti delle specifiche esigenze femminili è scarsa, qualcosa migliora con il Regolamento di esecuzione del 2000.

 

  • L’articolo 8  sull’igiene personale
  • L’articolo 9 sul vestiario e il corredo
  • L’articolo 7 sulla presenza del bidet in cella 

 

Il paradosso di cui parlano Franca Garreffa e Daniela Turco nel focus “Le donne nei Poli universitari penitenziari: ostacoli e prospettive di sviluppo” (Primo Rapporto sulle donne detenute di Antigone) riguarda una doppia tendendenza opposta tra il fuori e il dentro: da un lato, c’è la lotta contro l’abbattimento delle differenze tra i generi, dall’altra il mettere in evidenza le stesse diversità nell’ambito dell’esigenze detentive femminili

 

Un paradosso che potremmo complessificare, osservando che l’abbattimento delle differenze non nega le diverse esigenze e ne anzi mette in risalto le problematiche legate al mancato riconoscimento. Non è dunque un problema di per sé la differenza tra i sessi e i generi, ma il diverso trattamento che viene riservato alla componente maschile, la rigidità dei ruoli sociali assegnati, la contrapposizione agonistica tra un noi e un loro e i rapporti di potere che essa genera e che caratterizzano la società contemporanea; sia libera che reclusa, perché, ricordiamolo, apparteniamo tutt3 alla stessa. 

Si tratta di quel concetto di equità che dovrebbe essere alla base di uno stato che si dice democratico: non uguale per tutte le persone ma uguale in base alle specifiche condizioni delle persone prese in considerazione. 

Istruzione, formazione e opportunità per le persone detenute negli istituti femminili

Pubblicato su Ristretti Orizzonti, l’articolo di Manuela D’Argenio di novembre 2024 per tgcom24.mediaset.it, è introdotto così:

«Le sezioni femminili restano inadeguate, le attività professionali sono poco variegate, l’accesso agli studi non è uguale per tutti: la discriminazione di genere, di fatto, è rimasta immutata. Il carcere come istituzione totale è una struttura pensata per uomini in cui si riscontra, anche nei documenti ministeriali, un’incapacità di rielaborarlo al femminile». (Qui il link)

D’Argenio evidenzia i numerosi problemi esistenti all’interno del sistema carcerario legati alla discriminazione di genere. Le persone detenute negli istituti femminili spesso sono sottoposte a stereotipi e aspettative tradizionali legate al “comportamento femminile”. Infatti vengono introdotte ad attività come il ricamo e l’uncinetto, in contrasto con la maggior offerta di attività prevista per la componente maschile. Un’ulteriore tendenza di differenziazione riguarda l’accesso a opportunità lavorative e formative: esiste infatti un’alta disparità nell’accesso agli studi universitari tra popolazione carceraria maschile e femminile. 

 

Sembra chiaro che il dato numerico inferiore delle detenute e la loro distribuzione nelle sezioni femminili di carceri maschili contribuiscono – insieme alle suddette condizioni stereotipate con cui vengono pensate attività e servizi nell’istituzione penitenziaria – a una visibile marginalizzazione e a una scarsità di percorsi di reinserimento sociale adeguati.

Corpi ristretti e sensi di colpa

Sono meno persone sì, ma sono pure meno strutture. E quindi, se il sovraffollamento carcerario ad oggi è pari al 132% (qui il link), sembra che siamo proprio le carceri femminili a risentirne di più. 

Le persone detenute negli istituti femminili si trovano a vivere ammassate l’un l’altra e per di più in strutture pensate per la categoria di genere maschile, il che contribuisce a una mancanza di supporto e di risorse dedicate.

La discriminazione di genere in carcere è radicata nella concezione stessa della pena e nella struttura dell’istituzione che grava nell’emergenza continua data l’assenza di riflessione sulle condizioni di vita interne.

Spesso inoltre è presente quel tipico assorbimento dello “spirito abnegante” caratterizzante il ruolo di accudimento e cura assegnato culturalmente alle persone con utero ancor prima della nascita che si esplicita nel senso di colpa nei confronti di figli, compagni, padri e mariti lasciati fuori. Il senso di colpa può tradursi in atteggiamenti di sottomissione, atti di autolesionismo, suicidi o uso prolungato di psicofarmaci: tutti fattori che sembrano essere più frequenti tra la popolazione detenuta femminile rispetto alla maschile. 

 

Forse la bassa percentuale delle presenze femminili in carcere è uno dei motivi per cui sembra più difficile per le persone di genere femminile in carcere accedere a quei benefici – come corsi di professionalizzazione o universitari – maggiormente preposti per la componente carceraria maschile. Forse, invece, sono gli aspetti di una cultura patriarcale e omotransfobica che sono duri a morire e che condizionano la vita e i rapporti tra i generi sia fuori che dentro il carcere. 

O forse, entrambe le cose. 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip mestruali e assorbenti lavabili. Leggi di più qui

Un cartone animato Disney che spiega le mestruazioni: The story of menstruation (1946)

Siamo 1946 in America: la Disney viene finanziata e commissionata dalla International Cello-Cotton Company – una nota azienda produttrice di assorbenti – a dar vita a un cortometraggio che spiegava alle bambine e alle ragazze le mestruazioni, “The Story of Menstruation”. Per garantire l’accuratezza scientifica e ottenere il supporto di medici e infermieri scolastici, fu coinvolto un ginecologo come consulente nella produzione.

Il corto “The Story of Menstruation” dura dieci minuti e, con la voce di Gloria Blondell, spiega con precisione il ciclo mestruale, pur mantenendo un tono distaccato e senza essere troppo espliciti. Possiamo pensare che per i tempi, il corto rappresenti una una novità educativa all’avanguardia, ma proprio contestualizzando il periodo storico in cui è stato prodotto, non stupisce che “The Story of Menstruation” presenta degli aspetti critici. Se fino a poco tempo fa il ciclo nelle pubblicità era simpaticamente colorato di blu, il sangue mestruale nel cartone Disney è rappresentato in bianco e nelle animazioni tra le parti dell’apparato genitale femminile risulta assente all’appello la vulva

 

Per essere pensato nel 1946, “The Story of Menstruation” è stato uno strumento pedagogico importante, inoltre non si possono negare almeno due aspetti sinceramente apprezzabili: 

  • Viene smentito il falso mito del “non ci si lava con il ciclo” invitando il pubblico a non smettere di fare il bagno durante il ciclo mestruale ma a fare attenzione alla temperatura dell’acqua, che non sia né bollente, né gelata. 
  • Vengono spiegati la crescita e i cambiamenti del corpo, specificando che questi processi generano le diversità tra i corpi delle persone in modo rassicurante.  

 

La storia è semplice e racconta non pochi stereotipi di genere: una bambina in fasce viene seguita nel corso della sua crescita fino al giorno in cui diventerà moglie e mamma a sua volta di una bambina. Il film presenta le mestruazioni come «una parte del piano eterno della natura per trasmettere il dono della vita».

Una delle prime lampanti problematiche è la divisione di genere nelle classi durante la visione del cortometraggio. Dai commenti su Youtube sotto il video, leggiamo ad esempio:

Noi bambini abbiamo visto questo film nella quinta elementare negli anni ’60. I genitori dovevano firmare un’autorizzazione per permetterci di vederlo. All’epoca mi sorprese davvero quando ci dissero che avremmo visto il film. In classe? Durante l’ora di ginnastica? Non ricordo, ma i ragazzi non furono informati perché le cose erano diverse allora e tutto era molto segreto.

 

Si spiega alle bambine americane degli anni Cinquanta e Sessanta che bisogna cercare di non abbattersi per la stanchezza, di non lasciare che il ciclo interrompa le attività quotidiane: come ad esempio, si vede bene nelle immagini, quella di pulire casa

Il cortometraggio Disney inoltre invita il pubblico a non piangersi addosso, a prendere quei giorni con filosofia, così che sia possibile passarli con un bel sorriso in faccia e senza sbalzi d’umore. Anche perché, nonostante come ci sentiamo, bisogna vivere con le persone e con noi stesse

 

Alcune affermazioni o immagini fanno sorridere, altre ci fanno salire l’amaro in bocca. Non tanto perché non comprendiamo che “The Story of Menstruation” è un cartone animato del 1946 e rispecchia l’immagine dei rapporti di genere dell’epoca; ma perché nel 2025 oltre ad esserci persone che negano l’esistenza di una cultura patriarcale e omotransfobica, ci sono fondi stanziati per la «formazione degli insegnanti su fertilità maschile e femminile, con un focus sulla prevenzione dell’infertilità». Un’educazione “sessuo-affettiva” nulla, che probabilmente sarà più simile al video della Disney del ‘46 che non a quello per cui ci si batte quotidianamente: un’educazione al consenso, alla parità dei generi plurimi, alla libertà di autodeterminazione, al rapportarsi con una sessualità sicura e libera.

In ogni caso, se vi abbiamo incuriosito qui lasciamo il link del cortometraggio: “The Story of Menstruation”.

 

Quando leggiamo “menstruation” può sembrarci strano la presenza della parola “men” a nominare uno degli aspetti caratterizzanti della vita biologica del femminile. Potremmo perfino infastidirci della cosa, ma per quanto possa sembrare ironico, è solo una coincidenza dovuta all’etimologia di queste parole. Sulla piattaforma Quora un utente, Dhaval Rathod ha spiegato:

La parola “man” ha una radice che affonda fino al sanscrito “manu”, che secondo la mitologia induista è considerato il primo uomo. Le parole relative a “menstruation” derivano dalle radici latine “mensis” (mese) e “menstrua” (mensile). La stessa radice è anche responsabile delle parole “semester” [sex (sei) + mensis (mese)] e “trimester” [tri (tre) + mensis (mese)]. La parola latina “mensis” ci porta ancora più in profondità a una parola greca “mēn”, che significa anch’essa “mese”. Queste parole che rappresentano un periodo di un mese sono associate all’apparizione della full “moon” (greco: “mēnē”). La nostra “moon” ha anche dato origine alle parole “monday” e “month”. 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e assorbenti lavabili. Leggi di più qui.

Un carcere che “protegge” le donne – Delitto d’onore in Giordania

Nel libro “Donne violate. Forme della violenza nelle tradizioni giuridiche e religiose tra Medio Oriente e Sud Asia” Marta Tarantino affronta il rapporta tra cultura e legge, mostrando come gli intrecci che hanno intessuto i ruoli di genere nell’area mediorientale della Giordania influiscono sulla legislazione del Paese. 

Gerarchia famigliare e ritualità identitarie

L’autrice ricostruisce dapprima il corpus dei valori etico-morali che caratterizza il contesto arabo-islamico del regno Hashemita di Giordania, partendo dall’esplicitazione del duplice ruolo che ha la famiglia. Da un lato, essa assolve alla funzione privata di definizione e costruzione identitaria dell’individuo; dall’altro si fa strumento politico-religioso attraverso il quale la comunità dei credenti continua a esistere nella storia. 

Come uno specchio della società, la famiglia mediorientale è organizzata verticalmente secondo gerarchie e regolata da valori patriarcali. Nella vita famigliare di un bambino o di una bambina inizia la socializzazione ai modelli del femminile e del maschile attraverso lo scandirsi dei rapporti genitoriali dove la madre detiene un potere “temporaneo” sul figlio. Dopo i primi sette-nove anni di vita il bambino compirà quel rito di passaggio della circoncisione che segnerà il suo giungere, dalla maschilità – ossia la condizione biologica – alla mascolinità – il ruolo di genere. Se nei primi anni è stata la madre a curarsi del figlio, sarà poi l’autoritario e distaccato padre a dover guidare il bambino maschio. La bambina invece continuerà ad essere socializzata dalla madre e dalle altre donne di casa: 

«Per le donne invece, la lingua araba utilizza il termine unūah tanto con significato di “essere femmina” o “essere di genere femminile” quanto con quello di “essere molle”, sottolineando con quest’ultimo una sfumatura spregiativa, una semplificazione atta a ribadire il concetto patriarcale di subordinazione e debolezza dell’universo femminile rispetto a quello maschile.» M. Tarantino“La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Una costruzione identitaria che segna una duplice costrizione, una duplice sofferenza: se gli uomini dovranno onorare il proprio ruolo machista e violento, le donne sentiranno il peso di una sessualità di cui hanno l’onere di custodire. Queste costruzioni identitarie, incarnate simbolicamente nella virilità dell’uno e nella verginità dell’altra, s’incontrano nel vincolo del matrimonio, l’unico luogo in cui l’atto sessuale viene legittimato. E a quel punto, la rottura dell’imene della donna durante la prima notte di nozze, rappresenterà non solo l’onore di lei ma quella dell’uomo, della famiglia e di tutta la comunità.  

Delitto d’onore in Giordania

In Giordania la popolazione è caratterizzata da un substrato tribale che include sia arabi musulmani che cristiani ortodossi, i quali di solito appartengono a tribù di natura nomade, semi-nomade o sedentaria. Questa struttura contribuisce a una rete complessa di pratiche e consuetudini che, in molti casi, si sovrappongono o sostituiscono le leggi ufficiali dello Stato, creando una coesistenza di poteri che risale alla nascita dello Stato giordano moderno.

È proprio grazie a questa eredità culturale che la protezione dell’onore e della reputazione si è evoluta nel tempo, assumendo forme di violenza che sono moralmente accettate e normalizzate dalla comunità, in particolare nei confronti di chi mina l’onore e la dignità della famiglia.

Il codice di comportamento non scritto riservato alle donne è necessario al mantenimento dell’onore della famiglia, il quale gli uomini hanno il compito di proteggere e mantenere e che una volta perso, non può essere ripristinato.

Il delitto d’onore può essere letto come un reato culturalmente orientato e nasce proprio da questa responsabilità tutta al femminile dell’onore rappresentativo dell’uomo. La condotta vuole che la donna sia pudica e riservata per tutta la sua vita e in ogni ambiente che abita. Le cause del delitto d’onore possono essere di vario tipo: dalla conversazione di una donna con uno sconosciuto in un posto pubblico, all’assenza prolungata da casa; dal rifiuto di un matrimonio combinato, all’arrivo di una gravidanza illegittima se pure consumata da una violenza. 

«I delitti seguono poi uno schema che si ripete in gran parte dei casi: in una prima fase vi è la presa di coscienza da parte della famiglia del “disonore”, spesso oggetto di discussione di vere e proprie riunioni familiari, seguita dalla designazione di chi dovrà portare a compimento il delitto. Generalmente, l’esecutore materiale dell’omicidio è il fratello della vittima, sebbene all’azione possano concorrere tutti i parenti maschi più prossimi (il padre, lo zio paterno o il cugino), con impiego di armi di vario tipo fra cui coltelli, pistole o veleno nel cibo. Trattandosi di delitti che solitamente avvengono in aree lontane dai grandi centri abitati, spesso i corpi vengono abbandonati in zone remote, rendendone più difficile la scoperta, l’identificazione e complicando la successiva indagine.» M. Tarantino – “La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Legittimare un carcere che “protegge” le donne in Giordania

Nel 1992 la Giordania firma la Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination Against Women (CEDAW) che diventa effettiva nel 2007. Nel 2008 il Parlamento pubblica il Protection from Family Violence Law con lo scopo dichiarato di voler coadiuvare la riconciliazione fra i membri delle famiglie in conflitto. Nonostante le intenzioni, il testo resta poco chiaro e polveroso su alcune questioni fondamentali, come la stessa definizione di violenza che viene relegata nell’ambiente domestico. Il delitto d’onore resta di fatto facilitato dal codice penale, da letture misogine della religione musulmana e dalla forza delle consuetudini tradizionali. L’articolo 340 del Codice penale giordano fino al 2001 rendeva possibile la completa assoluzione degli accusati e nonostante le modifiche del testo tese a rendere le disposizioni più neutre, a oggi si recitano i benefici delle attenuanti per un uomo che dopo aver scoperto in ”flagrante delicto” sua moglie o parente la ferisca o uccida.  

«Nessuna donna è detenuta senza motivo, pertanto può avvenire (che essa venga detenuta) per proteggere la sua vita futura, l’eventualità di una disgrazia sociale.» – ibidem, cit. intervista di Amnesty International al Direttore del Dipartimento per i Diritti umani del Ministero degli Interni giordano (2020)

Così accade che per “salvare” la vita a donne che hanno macchiato l’onore della propria famiglia – magari per essere state stuprate e poi aver rifiutato il matrimonio con il carnefice, per essere fuggite via, per avere il grembo il frutto della violenza – queste vengono messe in carcere. In che senso?

Dopo essere stata costretta a sottoporsi a test medici “sulla verginità”, dopo essersi salvata dalla famiglia, dopo aver tentato invano di denunciare alle autorità la sua condizione di pericolo, per effetto del Crime Prevention Act del 1954 può succedere che una donna venga detenuta a “scopo tutelare”. 

  • Nel 2013 la maggioranza della popolazione detenuta femminile si trova nel carcere dei Juweida: vivono in condizioni precarie, vittime di abusi fisici e psicologici. Donne giovani, senza figli né marito, poco abbienti, donne che hanno subito violenze in ambito domestico, che sono state abbandonate dalle famiglie dopo l’incarcerazione. Per entrare e per uscire è necessaria la decisione del governatore locale che però non può acconsentire alla scarcerazione se non è sicuro che la famiglia non abbia intenzioni punitive. Così alcune ricorrono ai matrimoni combinati, altre vanno incontro alla libertà con una sentenza di morte appena fuori le porte del carcere.
  • Nel 2017 inizia ad accendersi il dibattito pubblico intorno alle questioni relative al delitto d’onore, i primi passi verso un’inversione di marcia vengono mossi grazie alle cronache giornalistiche, al lavoro delle associazioni e a una parte moderata del mondo islamico che guardano al problema riconoscendone le radici culturali.
  • Nel 2018 è istituita la casa-rifugio Dar Amneh per permettere alle donne in detenzione amministrativa di avere accesso a servizi, opportunità e assistenza per il reinserimento nella società. Tutti fattori negati all’interno del carcere di Juweida.

Il governo Hashemita sembra aver mostrato così un doppio atteggiamento che da un lato è caratterizzato dalla volontà di rendersi partecipe di un processo di riforma, dall’altro –  impedendo il trasferimento delle donne dal carcere alla casa-rifugio – si fa portatore di un potere arbitrario sulle donne tentando di convincerle a “tornare sotto la protezione maschile”.

«La difficoltà nel debellare il fenomeno è dovuta alla refrattarietà dell’intero sistema valutativo dei reati, il quale esprime, attraverso i vari organismi coinvolti, forme reiterate di male guardianship, partendo dagli uomini della famiglia per giungere ai medici incaricati di sottoporre le donne a test di verginità e gravidanza, al personale carcerario e in ultimo ai giudici chiamati a esprimersi nei processi.» M. Tarantino – “La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. Leggi di più qui.

Il tabù del femminile e l’interiorizzazione dello spirito abnegante

Tabù del femminile nelle piazze di oggi

Quattro giorni fa sulle testate italiane leggiamo che in piazza Municipio, a Napoli, accanto all’opera fallica di Gaetano Pesce, è comparsa una vulva provocatoria che ha avuto però vita breve. Rimossa prontamente dalle autorità, l’opera dell’artista Cristina Donati Meyer, ci ricorda ancora una volta la maggiore legittimità dell’esibizione pubblica della Grande bellezza del fallo rispetto a quella di una vulva che continua, tra le altre cose, ad essere erroneamente definita “vagina”. 

Certo, non si nega che l’opera di Donati Meyer non era stata autorizzata, tuttavia ci chiediamo, come ha fatto anche il team di PeriodOff: “Ma se un’artista chiedesse l’autorizzazione di una vagina gigante, quale amministrazione gliela concederebbe?”

Sul territorio italiano è letteralmente “visibile” il tabù del femminile: le statue e i monumenti eretti in memoria di personaggi e storie femminili sono 171. E poche di queste figure sono ricordate per altro oltre che per i meriti di sacrificio e di cura. Sono persone realmente esistite, personaggi letterari o leggendari, e rappresentazioni di collettività anonime, tutte situati in spazi pubblici come piazze, giardini e strade. Le rappresentazioni monumentali del femminile in Italia sono state individuate nel 2021 dal censimento e la ricerca portata avanti dall’associazione Mi Riconosci che potete consultare qui

 

All’ostentazione fallocentrica dell’essere maschio, corrisponde un’immagine del femminile che deve essere celata, se non espressa dalle prospettive del genere opposto. Lontana dagli occhi di chi attraversa le piazze ma allo stesso tempo proiettata sugli schermi come quella maga accattivante, quella sirena ammaliante che fa cadere ai suoi piedi ogni uomo e tremare di invidia ogni donna. La contrapposizione di genere maschile e femminile si gioca in tutte le cose che caratterizzano il nostro quotidiano, pensiamo banalmente alla dimensione domestica: per lungo tempo sede indiscussa del femminile, luogo-prigione in cui si relega il ruolo di tutrice, curatrice, dispensatrice di cibarie e affetto materno. La performatività del ruolo di genere prende il suo potenziale naturalizzante  dalla stessa capacità di essere ripetibile.

La ripetitività della performance di genere – parafrasando Judith Butler – fa sì che attraverso le parole, il sapere, le narrazioni, le pratiche e i rituali si reitera un tipo di atteggiamento in linea con il ruolo socialmente costruito di uomini e donne nei diversi gruppi culturali. 

 

I dualismi interiorizzati – del duro e del morbido, del forte e del debole, del pubblico e del privato, del razionale e dell’emotivo – possono essere rintracciati in altri contesti, nella ripetitività di un rituale che conferma – invertendole – le regole sociali associate ai comportamenti di genere.

Vediamo, ad esempio, la manifestazione di questa pratica performativa nel rituale naven osservato da Bateson tra il 1935 e il 1936 della popolazione Iatmul della Nuova Guinea. Un rituale incentrato sul “mostrarsi”, sul “dare a vedere” che consiste nello scambio dei ruoli tra il maschile e il femminile: gli uomini iatmul, travestiti da donne, inscenano una femminilità crudele e seducente in grado di suscitare quasi l’incesto; le donne iatmul, travestite da uomini, esasperano le gestualità maschili e le manifestazioni di orgoglio e fierezza dei guerrieri.

Il rituale naven si inserisce nel contesto di rito di passaggio dei giovani e permette agli appartenenti al gruppo di mostrarsi fieri o affettuosi uscendo dalle proprie categorie di genere in uno spazio e un tempo precisi, al di fuori dei quali, nella quotidianità, questo non è possibile. Non è possibile per un uomo iatmul esprimersi in atteggiamenti di affetto come non è possibile per una donna iatmul mostrarsi fiera. Ed è qui che entra in gioco il rituale naven: rende possibile una fuga momentanea dal proprio habitus e un ritorno che modifichi le tecniche incorporate per esprimere emozioni con nuove gestualità sulla scena sociale. 

«Attraverso un’esperienza corporea intensamente emozionale, determinata dall’assunzione di una diversa identità corporea, lo zio materno e la madre del giovane possono manifestare i loro sentimenti senza entrare in contrasto con il comportamento socialmente legato al proprio ruolo sessuale, e il giovane può riposizionarsi in termini affettivi nei confronti di entrambi.» – Giovanni Pizza, “Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo”

Interiorizzare una vocazione alla cura (del maschile)

Quando una persona con utero soffre di terribili crampi mestruali non trova che una rete ben consolidata al femminile che supportandola, sta lì a ricordarle che è naturale soffrire se si è donna* (*o appunto, se si ha un utero). La naturalizzazione di questa sofferenza insita nell’essere socializzate donne, oltre ad essere frutto di una costruzione socio-culturale – come non ci stancheremo mai di ricordare – è anche causa della parzialità della ricerca medico-scientifica sui corpi femminili

«Anche qui i rapporti di genere sono l’esempio più paradigmatico [della presenza di violenza strutturale]: gli uomini, in modo straordinariamente costante e trasversale a moltissime società, tendono a non sapere pressoché nulla della vita, del lavoro o delle prospettive delle donne, mentre le donne di solito sanno molto degli uomini – in effetti, sono tenute a farlo, dato che buona parte di quel lavoro interpretativo (se si può chiamare così) sembra ricadere sempre sulle donne – il che, a sua volta, spiega come mai di norma non è considerato affatto un “lavoro”». – David Graeber, “Le origini della rovina attuale”

Internet e i media, attraverso la loro specifica facoltà di connettere le persone e le loro storie, ci aiuta oggi a tenere assieme tutte le esperienze di violenza strutturale che colpiscono chi, ad esempio, recatasi dal medico per dolori cronici, deve superare le 7 fatiche d’Ercole e più per farsi riconoscere e diagnosticare l’endometriosi: perché alla fine se soffrire è naturale, quale altra risposta potrebbe dare un medico di fronte alla sofferenza femminile se non “sarà lo stress”?

 

L’oppressione storica che contraddistingue il femminile ha reso questa dimensione più accogliente, più accomodante e abnegante della controparte maschile che invece è naturalizzata al potere, al successo, al privilegio.

In condizione di pari difficoltà può succedere che sembrino le donne ad essere “più forti”, perché appunto più abituate a cavarsela in condizione subordinata. In realtà non è sempre così, né può essere vero per tutte le persone. Questo è chiaro, ma dobbiamo riconoscere le influenze culturali nella costruzione delle nostre identità che condizionano le nostre vite per intero

Così leggiamo anche nelle parole di Goliarda Sapienza, quando racconta di un giorno in cui la sua compagna di cella Roberta, dopo essersi incontrata con suo marito, torna incupita ragionando sui modi differenti con cui uomini e donne affrontano il carcere. 

« -Oggi, per esempio, mi metto questo vestito – l’ho fatto io, per dieci giorni ho lavorato… Ebbene lui s’incazza… “Come puoi avere testa a farti un vestito! Voi donne…” eccetera… Il fatto è, Goliarda, che noi donne reggiamo meglio il sistema carcerario. Certo, questo è possibile perché abbiamo un passato di coercizione e qui in fondo troviamo uno stato di cose che non ci è nuovo: il collegio, la famiglia, la casa… Sappiamo ancestralmente usare le mani, distrarci con mille lavoretti, e accetto anche – come lui dice – che sappiamo essere piú meschinamente furbe… Ma io aggiungo in risposta a lui, che mi si presenta sfessato da far pena, che noi sappiamo rendere creativa la giornata ora per ora, e non solo qui a Rebibbia che in fondo è un paradiso… Certo, il carcere a noi donne risveglia tutti i lati “femminili” che stiamo cercando di seppellire, il carcere forse ci vizia, ci fa regredire… Ne abbiamo parlato tanto con le compagne quando ero a Messina… Ma io dico: facciamo bene noi donne ad affossare tutte le “qualità” che i secoli di schiavaggio hanno sviluppato in noi? Dopo tanti anni di prigione, Goliarda, ti posso garantire che è un errore… Non bisogna dimenticare il nostro passato di schiave…» – Goliarda Sapienza, “L’università di Rebibbia”.

Roberta manifesta nei suoi pensieri quel ruolo interiorizzato di donna-sofferente (quindi più forte) e  ci comunica delle contraddizioni e delle negoziazioni con cui ci si confronta nel processo di decostruzione delle identità di genere

 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. Leggi di più qui

Costruzioni di genere attraverso due piani della realtà: tra mito e storia

Il corpo della donna e l’utero infame

Nel pieno dell’iniziativa che muove il progetto “Assorbire il cambiamento”, sono impegnata a districarmi tra le parole da comunicare sul blog e le tante ascoltate all’università e sembra che il modo migliore per riuscirci sia lasciar che le due realtà si incontrino. Oggi cercherò di produrre una connessione e parlarvi di alcune prospettive antropologiche sulle categorie di genere, ma con leggerezza. O almeno con più leggerezza possibile, considerando che parleremo del mito teogonico di Esiodo

Perché partire da così lontano? Perché mi piace “fare il giro lungo”… o forse perché per quanto distante, il mito – ordinatore logico della realtà – ci fa quasi sorridere per la potente evidenza delle basi costitutive di alcune nostre, diciamo così, categorie socio-identitarie come, ad esempio, quelle di genere

Il mito può essere osservato dal punto di vista del ruolo che ricopre in una cultura data, quello del dispositivo collettivo attivo di ordinatore logico del caos, in senso sia cosmologico che sociale. Un cosmo che si organizza secondo un equilibrio tra il femminile e il maschile e che attraverso le narrazioni della meta realtà del mito, assolve alla funzione di mettere ordine tra generi e generazioni, disciplinando le relazioni e le identità, collettive e individuali. 

Il mito teogonico di Esiodo

Andiamo al principio. Esiodo racconta che al principio c’era il Caos, poi Gaia (Terra) che tutto mette al mondo. 

La narrazione del mito prende avvio da un’entità associata alle istanze del femminile che senza alcun bisogno di una seconda parte compie l’atto di generazione e dà alla vita dei figli, la prima generazione teogonica: Urano (il Cielo), Ponto (il Mare) e la Montagna. L’unione con Urano permette di osservare alla nascita – nel mito – di una figura controversa, quella del padre

Urano colto da un sentimento di odio nei confronti dei suoi figli, li costipa nel ventre materno: li costringe al suo interno senza farli nascere mai del tutto. A questo punto, Gaia complicizza con uno dei suoi figli, Crono (Tempo): gli consegna una falcetta con la quale il figlio evira il padre dal ventre della madre, liberando se stesso e i suoi fratelli (la seconda generazione teogonica). 

Crono e sua sorella Rea concepiscono la terza generazione teogonica che non ha avuto proprio modo di farsi venire i daddy issues perché divorati dal padre subito subito.

Per dirla meglio, Crono – che ha evirato il padre – in prima persona ha sperimentato il rischio di un padre “tradito” da suo figlio, quindi esorcizza quel pericolo (insito, iniziamo a notare, nel ventre femminile della madre). 

Dal canto suo, Rea anche aveva l’esempio di quel che un padre poteva fare ai suoi figli e riesce a nascondere dalla macabra abbuffata del fratello-sposo un figlio, Zeus. Ci sembra ora ovvio a questo punto il destino di Crono: evirazione da parte dell’unico figlio rimasto.

Diciamocelo, come poteva uscire Zeus da una storia famigliare così disastrata? 

Zeus fa di Era la sua sposa ufficiale e nel mentre va a spargere il suo seme un po’ ovunque, anche tra le figure di donne non divine, come Meti e Semele. Ed è qui che compie il reale passo di rottura con i tristi epiloghi delle storie dei padri divini: dopo aver concepito i suoi figli, Zeus li espianta dai ventri materni e li incista nel proprio corpo. 

Dall’unione con Metis e dal cranio di Zeus nasce Atena,  dea della saggezza e della memoria. Nata guerriera in difesa del padre e della polis, non conosce ventre materno ed è lontana della madre. Atena stessa non vuole avere figli. 

Dall’unione con Semele e dalla coscia di Zeus nasce Dioniso, dio del vino, dell’ebbrezza e dell’estasi. Divinità nella quale si annida il principio degli opposti e attraverso il quale si celebra il caos. 

L’equilibrio di genere non è definito attraverso le due figure di Atena e Dioniso, la prima femmina con caratteri esplicitamente maschili, l’altro “ibrido”, sia maschio che femmina.  

Entrambi rappresentativi di un gioco tra identità e alterità nel quale si legge la possibilità che l’io contenga in sé l’altro. I due ruoli inoltre concorrono ad assolvere alla funzione del mito dal momento in cui lasciano aperto uno spiraglio di caos nell’ordine dato. In tutti i modelli mitologici, ci dice l’antropologa Laura Faranda, la possibilità del caos resta in aperta per renderci pronti al suo eventuale ritorno, come a voler munirci delle strategie per disciplinarlo e mantenere l’ordine. 

Attualizzare il mito

Nel mito assistiamo, con il gesto di Zeus, a un passaggio di potere dal femminile al maschile. Perché è così importante l’atto di rottura del dio olimpico? Zeus di fatto, incistandosi i feti dei figli nel proprio corpo allarga il suo potere di maschio. Trasforma quello che per nonno e padre era stato un tentativo (fallito) di esercitare un controllo sul corpo del femminile e sulla natalità in conoscenza del mistero della nascita. Zeus si fa femmina, elimina dall’equazione il corpo della donna. Vuole essere maschio dominante, padre e signore degli dei e per farlo deve poter dominare il “mistero” della nascita

Se il mito come abbiamo detto nasconde la storia, in che punto della storia si inserisce questo mito? Secondo la lettura che stiamo seguendo, nel momento in cui le comunità umane della Grecia antica iniziano a rappresentarsi come poleis, si comincia ad affermare un sistema proto-agrario per il quale costruire culturalmente un equilibrio tra il maschile e il femminile diventa necessario. Perché? Cosa arriva con la sedentarietà? 

Il principio di proprietà che si lega quasi subito a quello di ereditarietà si intreccia con un dilemma che riconosciamo ancora oggi nei detti e proverbi comuni come “la madre è sempre certa!” e il padre? Bisogna essere sicuri dei propri figli e quindi esercitare un potere sulla loro nascita, sui corpi femminili che li ospitano. 

Guardiamo un momento ora al presente: Zeus nel mito si prende tutto il controllo possibile dell’atto di nascita, oggi a chi appartiene questo potere?  

 

Ci lasciamo questo interrogativo aperto con la consapevolezza che la risposta sia osservabile direttamente nel dato empirico del vivere quotidiano e che molte altre prospettive possano scaturirne. Prossimamente parleremo ancora di queste tematiche allontanandoci dal mito e guardando ai corpi femminili, alla loro costruzione sociale in diversi contesti e all’iper-medicalizzazione dell’atto della nascita. Pensi possa essere interessante? Faccelo sapere nei commenti!

Testo consigliato : Laura Faranda. “Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia antica.” Armando Editore, 2009.

Aborto libero e sicuro: my body my choice

«Mi dispiace essere la prima donna a intervenire, ma la quarta a intervenire. Qui si sta parlando di un problema che riguarda principalmente le donne e, come al solito, il dibattito prende avvio da due uomini… Io mi auguro che stasera ognuno di noi dimentichi che l’aborto non è un gioco politico. Che a restare incinte siamo noi donne, che a partorire siamo noi donne, che a morire partorendo o abortendo siamo noi. E che la scelta tocca dunque a noi. A noi donne. E dobbiamo essere noi donne a prenderla, di volta in volta, di caso in caso, che a voi piaccia o meno. Tanto se non vi piace, siamo lo stesso noi a decidere. Lo abbiamo fatto per millenni. Abbiamo sfidato per millenni le vostre prediche, il vostro inferno, le vostre galere. Le sfideremo ancora.»

ALESSIA

Era il 1976, Oriana Fallaci rendeva la sua posizione nel dibattito sull’aborto in una puntata di “AZ: un fatto, come e perché”; due anni dopo in Italia viene introdotta la legge 194. Una legge indubbiamente ambigua e ampiamente discussa ma della quale dobbiamo necessariamente riconoscere l’importanza per l’introduzione della libertà di scegliere sull’interruzione di gravidanza. Una libertà che come tutte le altre va rivendicata con forza ogni giorno, dal momento in cui sembra tristemente non essere scontata. L’ambiguità e la poca concretezza della legge 194 si palesa sul piano del quotidiano, nei racconti delle donne che hanno dovuto subire gli atteggiamenti pregiudiziali degli obiettori di coscienza, vittime di un sistema culturale che non “concede” alle persone la libertà di scelta sul proprio corpo e sulla propria vita ogni volta che pronuncia “il mito” dell’istinto materno.

 

«L’attuale legge 194 non garantisce un vero diritto all’aborto ma lo consente in determinati e specifici casi. Ha avuto il merito di arginare la piaga dell’aborto clandestino ma non ha in alcun modo garantito l’autonomo diritto di scelta. Noi chiediamo un autonomo diritto di scelta e autodeterminazione, per far sì che la libertà riproduttiva non incontri più ostacoli morali e amministrativi e possa essere liberamente accessibile per chiunque decida di interrompere una gravidanza.» 

 

La campagna “Libera di abortire” nasce il 20 maggio 2021 al fine di abbattere ogni tipo di ostacolo riguardo l’esperienza personalissima di scegliere di mettere al mondo un essere umano. Una scelta appunto così personale che oltre a dover essere garantita, direi anche che non può e non deve essere giudicata da nessunissima persona. Ad esempio io non vorrei mai sentire parole come “purtroppo l’aborto è una delle libertà delle donne” o cose simili, ma purtroppo le sentiamo tutte e tutti noi.

 

In una classe di quinto liceo, qualche anno fa, una professoressa di religione ha proiettato sul muro un video che sicuramente con la materia religiosa, almeno in termini di storia delle religioni, non aveva niente a che vedere: la vita di un embrione nel ventre della donna, insomma dalla formazione dello zigote in poi. Sarebbe potuta sembrare più una lezione di scienze che di religione. Questo almeno fino a quando la professoressa non ha bloccato il video al “primo trimestre” di gravidanza, più o meno il limite di tempo entro il quale una persona può scegliere di abortire. 

 

«Oggi in Italia la donna può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza entro i primi 90 giorni di gestazione per motivi di salute, economici, sociali o familiari.» 

Alla luce delle informazioni del video circa lo sviluppo del feto durante il primo semestre di gravidanza – si forma il sacco amniotico e la placenta; inizia il processo di generazione degli organi e a comparire gli arti – la professoressa ha chiesto alle sue studentesse se, dal momento che il feto aveva già un cuore, due braccia e due gambe, l’aborto potesse essere considerato un omicidio. 

Non molto appropriato come metodo di apertura di un dibattito su una questione così intima, come l’interruzione volontaria di gravidanza. Non solo possono esserci milioni di motivi differenti rispetto alla decisione di una persona di non dare al mondo un essere umano, ci sono almeno altrettanti atteggiamenti con cui si attraversa un’esperienza di questo tipo. Dietro ogni scelta c’è il volere di una persona, i suoi sentimenti al riguardo e le sue uniche e incontestabili ragioni: nessuno ha il diritto di accusare, sottostimare o stigmatizzare le donne che abortiscono liberamente, avendo pieno controllo sul proprio corpo e la propria vita.

Analizziamo la Violenza di Genere in Italia: con il principio di Pareto 80/20

MATTEO

La violenza di genere è un problema persistente in Italia e in tutto il mondo. Per esaminare questa questione complessa, possiamo applicare il principio di Pareto 80/20, noto anche come il principio di “vital few e trivial many“. I più assidui lettori del blog ricorderanno che questo principio suggerisce che circa l’80% degli effetti proviene dal 20% delle cause. 

 

Il 20% dei Casi di Violenza di Genere

Nel contesto della violenza sulle donne in Italia, il 20% dei casi rappresenta una grande parte del problema. Questi sono i casi più gravi, che spesso portano a gravi danni fisici e psicologici per le vittime. Questi casi richiedono una risposta urgente e coordinata da parte delle autorità e delle organizzazioni di supporto.

 

Le Cause Principali dell’80%

L’80% dei casi rimanenti di violenza di genere ha spesso cause radicate in dinamiche sociali, culturali ed economiche. Queste includono stereotipi di genere, disuguaglianza economica, mancanza di istruzione e consapevolezza, e altre sfide strutturali. Affrontare queste cause richiede un impegno a lungo termine per promuovere cambiamenti significativi nella società.

 

Concentrarsi sull’Educazione e la Sensibilizzazione 

Uno dei modi più efficaci per applicare il principio di Pareto è concentrarsi sull’educazione e sulla sensibilizzazione. Investire nella formazione delle giovani generazioni e nell’informazione delle comunità può contribuire a ridurre la violenza di genere. Promuovere l’uguaglianza di genere nelle scuole e nelle campagne di sensibilizzazione pubblica può avere un impatto significativo.

 

Supporto alle Vittime di violenza di genere

Per affrontare il 20% dei casi più gravi, è essenziale migliorare l’accesso delle vittime a servizi di supporto. Questi servizi dovrebbero essere facilmente accessibili, rispettare la privacy delle vittime e offrire assistenza legale, psicologica ed economica.

 

L’applicazione del principio di Pareto 80/20 alla violenza di genere in Italia ci offre una prospettiva interessante sulla questione. Concentrando gli sforzi sull’80% dei casi meno gravi e sulle cause principali, possiamo lavorare per creare un cambiamento significativo nella società italiana. Questo richiede una collaborazione tra istituzioni, organizzazioni non governative e la società civile per affrontare la violenza di genere in tutte le sue forme e promuovere un futuro più equo e sicuro per tutti.

La cultura dello stupro

ALESSIA

Come “100 cani su una gatta” si sono descritti gli autori della recente violenza consumata sul corpo di una giovane donna. Mi crea sempre un po’ di disagio il parlare o commentare l’atto dello stupro. È quasi una risposta immediata del mio corpo che in quanto corpo di donna, sente il ghiaccio del terrore paralizzarlo. 

Se ci penso, quasi a conferma di questo immediato sentire, ci sono le parole di chi tra e con le persone pregiudicate ci lavora da anni e che con il corpo di donna ci fa i conti quotidianamente: la difficoltà a interagire con i “sex offenders” è qualcosa che accomuna diversi discorsi delle educatrici della cooperativa PID e non. 

Poi sembra che fatico nel sentirmi in diritto di cercare le parole per descrivere la brutalità di un gesto che viene commentato a destra e a manca senza criterio. Spesso ci si dimentica del necessario e doveroso pudore che dovrebbe accompagnare qualsiasi tipo di atteggiamento nei confronti della persona abusata, la quale di certo merita più rispetto di quello che già le è stato negato. 

Potrei aver voluto scrivere questo disclaimer per contestualizzare la prospettiva, in punta di piedi, che assume la mia penna in questo articolo. 

 

Il punto è che di fronte a un mondo in cui la cultura dello stupro è radicata nei più piccoli interstizi delle attività giornaliere e dei pensieri più comuni, un mondo in cui ogni giorno i giornali, i social network e le televisioni si riempiono di immagini, registrazioni e parole che tolgono il fiato, diventa impossibile tacere. La violenza di genere fa parte della nostra cultura patriarcale, la cultura dello stupro si gioca sulla distorta concezione della donna e la repressione della sessualità libera che nega l’importanza del consenso, minimizza e naturalizza l’atto dell’abuso sessuale del maschile sul femminile in quanto, quest’ultimo è il rappresentante di un ruolo ben costruito. Non so a voi, ma a me è capitato spesso di ascoltare frasi come “però ci sono alcune ragazze che se la cercano”. Una persona in particolare, un semplice e “normalissimo padre di famiglia” ha detto (di fronte alla figlia adolescente) che capisce quando, purtroppo, si è in giro o in discoteca e una ragazza viene stuprata: nel senso che quando succede così è molto brutto, quando succede invece mentre una ragazza è a un party “con gli amici che si drogano” allora non può lamentarsi più di tanto perchè insomma, non ci prendiamo in giro “sai a quello che vai incontro”

 

Riporre la responsabilità della violenza sessuale subita nelle mani della vittima è cultura dello stupro, è ancora normalizzazione dell’atto di prevaricazione su quella parte della popolazione che viene definita “sesso debole”.

 

Ho sentito anche frasi come “eh ma ultimamente se ne sentono davvero tante” e ogni volta rispondo che magari ultimamente abbiamo la possibilità di denunciare con una speranza maggiore di essere credute, anche se con immensa amarezza mi trovo a constatare che non è poi tanto vero. Forse non c’è più la stessa vergogna che accompagna la donna violata senza il proprio consenso, o forse persiste pure la vergogna ma c’è chi cerca di combatterla con la ragione

 

La verità è che di tutte le persone che ho conosciuto in soli 23 anni, molte tra le donne portano con sé una storia di violenza: molestie, abusi emotivi e psicologici, schiaffi, pugni, penetrazioni non richieste. E molte donne decidono di portare il peso di questo dolore senza esprimerlo, perché possono vedere chiaramente intorno a loro il rischio di essere considerate solo un altro caso, solo un’altra vittima della cultura dello stupro

E sinceramente non le biasimo, le rispetto profondamente e taccio di fronte al loro sguardo. 

 

Allo squallore delle conversazioni dei “100 cani” reso pubblico di recente, si somma un altro tipo di squallore, più pudico e meno palesemente complice della cultura dello stupro, ma potremmo dire forse il più centrale: la negazione della violenza di genere come frutto della mentalità patriarcale e dell’inesistenza di un educazione sessuale e al consenso. La negazione arriva prepotente nell’invocazione, ad esempio, della castrazione chimica; pena che oltre ad essere incostituzionale –  dall’Art. 32 «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.» – non sarebbe utile.

 

Il discorso è sempre lo stesso, “come può uno scoglio arginare il mare?”.

Com’è possibile non pensare che il problema vada estirpato alla radice, piuttosto che reagire alla violenza con altra violenza? Quello che forse dovremmo piuttosto invocare è la necessità di cambiare in profondità le regole sottostanti le figure del femminile e del maschile. Abbiamo l’obbligo di guardarci allo specchio, come società e rete culturale che produce il femminicidio e la violenza di genere in tutta la brutalità del suo marasma e di accettare le nostre responsabilità, chiedendoci magari come potremmo riuscire a garantire a una donna la possibilità di camminare per la strada senza il timore di essere stuprata.

La cultura che genera il femminicidio

Sulla cultura patriarcale e il ruolo delle donne nella società contemporanea, si esprime L, commentando il recente femminicidio di Giulia Tramontano, senza poter trattenere l’amaro.
Di fronte a questi episodi, ti si arrovella lo stomaco. È veramente possibile che alla scomparsa di una donna, si è già tutti e tutte consapevoli che “è stato lui”?
Alcuni sostengono che non esiste più ragione per portare avanti le cause del femminismo, perché ormai si sono ottenuti tutti i diritti. Come a dire “E basta, dai. Non vi accontentate mai voi donne!”. Come si può credere veramente questo?
LE PAROLE DI L

NON DIMENTICHIAMO GIULIA!

Non crea più stupore, solo un senso di ribrezzo e impotenza, la retorica dei media all’indomani della morte di Giulia Tramontano, una giovane donna incinta di 7 mesi uccisa dal suo fidanzato. Il concetto della donna-premio, promulgato sui media anche da certi personaggi di “spessore”, sottende ancora un retropensiero del quale noi “maschietti” non ci siamo ancora liberati e con il quale non abbiamo ancora fatto i conti.

Questa “sub-cultura” può, come nel caso di Giulia, generare dei mostri. Si fatica molto a considerare la differenza tra amore e possesso. Non lo si fa abbastanza. Anche in questo caso, non riguarda solo il nostro paese: si pensi a quello che succede alle donne iraniane. Mentre in alcuni paesi europei, dove le società sono più “laiche” e le cose vanno “meno peggio”. 

 

Ogni ora nel mondo 5 donne vengono uccise da un uomo. 

 

La nostra “Commissione d’inchiesta” sul femminicidio sembra essere colpita da afasia. Noi, nel nostro paese, subiamo un retaggio culturale, come scritto poc’anzi, che ci impedisce nel XXI secolo di tenere lezioni di educazione sessuale da un punto di vista scientifico nelle scuole. Il reddito delle donne è mediamente più basso rispetto a quello degli uomini e non possono affrancarsi. Si è spesso portati a credere che la “denatalità” nel nostro paese sia colpa delle donne perché lavorano troppo e non hanno tempo per i figli

 

Forse una certa contiguità con i settori più conservatori del Vaticano ha un peso condizionante il comune pensiero della nostra comunità. Alle donne è impedita ad esempio la celebrazione della messa

 

Si dirà che di qui alle “gesta folli” dell’assassinio di Giulia c’è una distanza abissale. La verità è che se non ci si libera di una certa cultura patriarcale che è una peculiarità secolare d’Italia, queste tragedie torneranno a ripetersi.

 

Non dobbiamo dimenticarci che tutti noi maschietti siamo stati “abitanti” per 9 mesi del corpo di una donna, siamo stati nutriti e cresciuti da lei. È ora di rimuovere certe idiozie che trasudano maschilismo becero. Basta con il pensiero “un uomo che ama molte donne è un play boy” ma se lo fa una donna, questa è una … Non è possibile questo!

Si può far sesso per “amore”, per “passione” o per “mestiere”, diceva De André. E questo devono poterlo fare anche le donne, senza essere oggetto di insulti o peggio.

 

Quanto è accaduto a Giulia non sarà purtroppo, con ogni probabilità, l’ultimo episodio di femminicidio. C’è da crederlo, nostro malgrado. Viene voglia di parafrasare la celebre espressione di un film di alcuni anni fa “Ghost”: l’amore che Giulia aveva dentro se stessa, le donne in ogni angolo delle strade di questa città lo porteranno con sé.

 

Ciao Giulia, 

M49