Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Ottava – ricordi di un’operatrice in carcere

Ormai più di 15 anni fa Laura entrava in carcere come operatrice e come donna in una delle sezioni più difficili da affrontare, contenitrice delle persone che avevano commesso reati di violenza sessuale e di pedofilia, o di chi dopo aver collaborato con le forze dell’ordine doveva essere protetto dal resto della popolazione detenuta. Le sue parole quantomai attuali ci fanno ragionare su questioni fondamentali. La prima che emerge è proprio il ruolo di educatorɜ, volontarɜ, operatorɜ in carcere, del peso che portano con loro, tutte le “strategie” necessarie per poter spogliarsi di ogni tipo di pregiudizio di fronte a una persona detenuta e non restare risucchiatɜ dall’istituzione carceraria. Sono le esperienze del contatto con le persone che erano dentro per reati di violenza sessuale a raccontarci ancora una volta quello di cui poi non si smetterà di parlare e che si radica nel nostro contemporaneo da un tempo quasi inquantificabile: la violenza strutturale sul corpo delle donne. 

LAURA, 4-03-2009

Infondo al corridoio, seconda rotonda subito a sinistra. 

Cammino con calma Il corridoio è lungo e gelido, e la temperatura è sempre, misteriosamente più fredda di quella esterna, il pavimento è oleoso che quasi ci si pattina, doppia rampa di scale. Io salgo sempre quella di destra dove il primo gradino è rotto, non c’è un motivo forse un po’ per abitudine o per cercare quella sicurezza sciocca che solo le abitudini sanno dare, quella sicurezza che fuggo all’esterno, perché le abitudini sono delle bestie, e per quanto spesso le preferisca all’uomo per la loro sincerità, ritengo che immobilizzarsi in esse non ci renda liberi di crescere.

 

Ma come poter parlare di libertà in un luogo simile?

E allora come bestia ripeto sempre lo stesso rituale. 

Alla fine del corridoio seconda rotonda a sinistra, Ottava sezione.

 

Quello dell’ottava è l’unico portone d’ingresso di tutti i “bracci”, dai  quali vetri non si vede attraverso. Devo dire che è la sezione in cui vado maggiormente mal volentieri,  sempre prima di entrare faccio un grande respiro, come quelli che si fanno in mare prima di andare giù in apnea, e indosso il migliore tra i miei sguardi di repertorio seri e duri.

L’ottava è strana, al momento dell’ingresso ho sempre la stessa sensazione, come di stare entrando in un manicomio. I muri sono bianchi, tutto è molto bianco, la sezione è quella che riceve in assoluto il minor numero di visite dal mondo esterno civile laico e cattolico. Gli ospiti mi sembrano avere spesso tutti sguardi vuoti e tondi, anche se non è così, e aspettano sempre

 

Il corridoio principale è spesso vuoto, al contrario delle sezioni comuni, per ognuna delle quali ho costruito un’immagine che la contenga. Per poter lavorare e vivere in carcere credo che le persone creino dentro di sé delle strategie per poter sopravvivere

Io personalmente mi creo una barriera difensiva che impedisca alla struttura architettonica, a quella gerarchica e al concetto di chiusura, di farsi spazio ed annidarsi dentro di me, una strategia che faccia sì che non venga interiorizzata la mentalità carceraria. E poiché ragiono molto per immagini e riesco a costruire in me dei contenitori per esse, tutto ciò che vedo,  anche le persone, vivono attraverso il filtro della mia immaginazione. 

 

Questa è una sezione molto particolare, è quella deputata ad accogliere le persone che hanno commesso reati di violenza, di pedofilia e i cosidetti “infami”, ovvero chi fa nomi, cioè “se la canta” non attenendosi al codice che vige tra i galeotti. Il carcere è un micro universo e come tale ha le sue regole, e il disprezzo comune verso chi usa violenza sulle donne e sui minori, è l’unico spazio all’interno del quale si trovano uniti guardie e detenuti. In ottava l’unico a non fare differenze è dio, che attraverso il volontariato cattolico porta conforto a queste “anime perse”. Dovrei dire che forse è uno dei pochi posti dove non fa differenze. 

Io non vivo attraverso una caritatevole ed imparziale morale cattolica,  per cui sono costretta a scindermi tra l’operatrice che offre lo stesso servizio a tutti e la donna che fermamente ama prendere posizione. Quello che mi sono costretta a fare è stato separarmi da un giudizio a priori  dove non c’è spazio per l’errore della legge, che non  è quasi mai giusta, ma mantenere uno spazio solo mio in cui osservo, studio, immagino, ascolto.

 

 Mi siedo nella stanzetta bianca l’agente chiama le persone che hanno fatto domandina. L’operatrice svolge impeccabilmente il suo lavoro, cercando di non entrare nei dettagli, ma tutti hanno un gran bisogno di dire come sono andate effettivamente le cose benché io insista che non importa, che noi parliamo allo stesso modo con tutti. Ma il marchio di stupratore è un pesante fardello da portare. Tutti vogliono convincermi della loro innocenza neanche fossi il giudice. Ed è così che mi trovo a  parlare perlopiù con persone comuni spesso benestanti  a cui non manca nulla, vittime della “follia” del momento – o più propriamente di un sistema culturale che inietta loro fin da subito una mentalità patriarcale e violenta – o assolutamente innocenti, e a viaggiare tra stanze d’albergo, B&B, capannoni dove si consumano i delitti. Sono vittime di false denunce, di ricatti…. Donne che si puliscono dallo sperma apposta con i propri abiti per poi poter ricattare, donne che affrontano quella che viene vissuta come la vergogna di aver subito una violenza, trafile burocratiche, esami del DNA, interrogatori spese legali per una ripicca, per ricattare. Per cosa? Quante volte effettivamente può presentarsi una situazione del genere? Non lo so ma conservo i  miei dubbi.

Capita in questi colloqui che sia il concetto di violenza ad essere messo in discussione, violenza può essere qualsiasi contatto… la violenza non esiste. Qualcuno racconta di non aver violentato nessuno, semplicemente di essere andato con una prostituta senza poi pagare: non è violenza, perché si tratta di una puttana. E se non si tratta in termini pratici di una prostituta, è sempre così che si rivolgono alla donna, come a una cosa. E attraverso i volti e le parole io non vedo le persone che mi parlano, non raccolgo  disgusto verso il singolo, proprio non mi viene, ma dall’interno del carcere, prendo tutto questo come un plastico, una miniatura, e lo riporto fuori. Io vedo una identica società ricostruita in piccolo, un’identica  ignoranza che accomuna poveri e ricchi. Lo stesso meccanismo di scuse e omertà che copre le migliaia di stupri che avvengono nelle famiglie, dentro le case coperti dal perbenismo borghese.  Continuo a vedere una società che porta alta la bandiera dell’uguaglianza, delle pari opportunità che si basa su uno sviluppo orizzontale e superficiale  che non si guarda mai indietro, che non va in profondità, che lavora per i diritti di tutti ma non insegna, non dà strumenti alle persone per poter capire davvero, che non l’ha mai fatto se ancora  adesso la gente ragiona così.  Una società che prevede che il  corpo sia uno strumento politico legato alla sua utilizzazione economica. 

E nessun corpo più di quello femminile è stato assoggettato a strumento economico, la società se ne impadronisce attraverso una falsa emancipazione che ci rende ancora più schiave, ancora più macchine, ancora più assoggettate ad un controllo maschile. Impedisce di fare figli per un culto del corpo o perché è riuscita a convincere che la realizzazione è esclusivamente quella lavorativa, dunque personale e quindi economica, negando uno spazio creativo che ognuna ha il diritto di scegliere, ed imponendone uno restrittivo all’interno di un’immagine. Una società che ugualmente ti penalizza se invece i figli li vuoi fare, perché non sei più una bestia produttiva, una società che ha costruito un concetto di famiglia  dove la prima cosa, la base è la stabilità economica e la ricchezza, rendendoci ignoranti al fatto  che “la ricchezza impone un più accentuato controllo sociale” .

Si mette in prima pagina un mostro si “punisce uno per educarne cento”, si fanno scivolare nel dimenticatoio gli stupri compiuti “dai quei bravi ragazzi” di buona famiglia, continuando silenziosamente a colludere con tutte le centinaia di violenze che avvengono dentro le sicure mura domestiche, ma infondo lontano dagli occhi…

Vissuti di dentro: racconti di incontri, legami e domandine

Lo scorso febbraio, in seguito a un commento ricevuto sotto un nostro post, un ex detenuto e utente della cooperativa ha deciso di condividere con noi la sua voce che oggi raccontiamo qui. Domenico è uscito definitivamente dal carcere nel 2022, un passato non molto lontano, ma è oggi libero e sereno perché “ha pagato tutto” e “non ha più nulla da nascondere”. La nostra chiacchierata inizia più o meno così: 

A. «Posso registrare?»

D. «Sì va bene tanto io non ho niente da nascondere, non ho più niente da nascondere. ‘Na volta sì adesso no».

LE PAROLE DI DOMENICO

Io ho conosciuto il PID nel 2005 dopo l’ennesima domandina che ho fatto, perché ne ho fatte svariate per poter parlare con un’operatrice del PID, eh!

Nel 2008 sono uscito e mi sono affidato al PID perchè io tutte le volte che sono uscito prima me ritrovavo sempre in mezzo alla strada e dovevo sempre fa’ reati, come me tanti altri detenuti che non hanno nessuno, nessun riferimento, nessuna opportunità diciamo. 

E il PID mi ha aiutato. Mi ha inserito nelle borse lavoro e mi sono trovato bene, non ho fatto più reati. E non mi hanno mai abbandonato, neanche in queste altre occasioni perché lo sapevano che io ormai ero uscito da tutto il contesto di delinquenza. 

Poi ho avuto altre carcerazioni, nel 2015 e nel 2019 ma erano tutte cose vecchie, prima del 2005 che sono andate definitive perché come si sa i processi vanno per le lunghe. 

 

A.«La famosa giustizia lenta?»

D. «Ma non direi lenta, lentissima».

Mi sono affidato a loro e sono riuscito adesso nel 2022. Grazie al PID però, perché mi ha dato una grande mano facendomi conoscere un’avvocatessa seria e mi ha salvato perché sennò il mio fine pena era il 2034.

Un lungo percorso “dentro” 

Ho cominciato con Porta Portese da minorenne e l’ho chiusa diciamo nel ‘67/’68. L’ex carcere minorile sarebbe. Poi sono andato a Regina Coeli, Rebibbia, San Vittore. Perché andavo pure fuori a lavorà, tra parentesi. San Vittore, Livorno, Firenze (sempre da minorenne) in Via della Scala; Chieti, dopo la rivolta del ‘74 a Rebibbia. Perché stavo là io quando c’è stato tutto il casino e abbiamo distrutto tutto quanto.

A. «Hai partecipato alle rivolte?»

D. «Si, ho fatto un casino lì. Ancora ero un ragazzo che la testa non c’era».

Entravo, uscivo, entravo, uscivo. Mi ritenevo l’omo più bevuto d’Italia

Che poi quando uscivo mi ritrovavo un’altra volta per strada… Dovevo campare, dovevo mangiare. Non avevo famiglia, non avevo niente.

Le domandine in carcere

In carcere devi fare domandina per tutto, per tutto ci vuole la domandina: per poter parlare con l’assistente sociale, per poter parlare con la psicologa, per poter parlare con il direttore, con il “capo posto” (il capo del reparto). 

Per fare entrare dentro un paio di scarpe nuove ad esempio, perché le vecchie sono rotte, devi darle prima indietro (le vecchie) altrimenti non entrano (le nuove). 

 

E certe domandine si perdono, diciamo si perdono… Tante le cestinano e invece tante si perdono. La domandina è tutto, senza domandina in carcere non ci fai niente.

Molte però, forse la maggior parte vengono perse. Io per poter parlare col PID ho fatto innumerevoli domandine. Finalmente poi mi hanno chiamato “Domenico? Devi anna’ a parla’ col PID”. “Oddio che sta a succede!”

Gli affetti da dentro e le feste in carcere

Allora uno che fa quando non trova un aiuto e si ritrova per strada?

Questo è quello che dicevo io… 

 

E lì ho passato svariati Natali, Natali brutti. Natali dove ho visto tanta gente, “criminali per davvero”, che in quei giorni la soffrivano veramente la galera. La soffrivano proprio perchè la gente diceva “sì, so criminali e tutto quanto” ma dentro c’hanno sempre ‘ncore. Hanno i figli, le famiglie, le madri, i padri che hanno lasciato fuori.E per quanto delinquenti senti che ti mancano quando arrivano questi giorni particolari. 

Sono gli affetti che mancano, mancano.

Io ce ne avevo pochi di affetti in quei periodi. Dopo ce ne ho avuti tanti, nel 2005 i miei due figli. Nel 2019 mio figlio era in clinica, ricoverato che ora sta male e lo seguo io, viviamo insieme perché da solo non può stare. Stiamo io e lui, lo aiuto con le terapie e quello che deve fare. Stiamo tranquilli.

A. «Quindi hai trovato la tua serenità in qualche modo?»

D. «Sisi, adesso sì. E cerco di dargliela pure a lui».

Torneremo a Domenico e alla storia, ai suoi preziosi racconti e alle sue parole desiderose di una giustizia che non dimentichi nessuno.

I 25 anni del PID Onlus

La Cooperativa PID Onlus – Pronto Intervento Disagio – lavora per l’inclusione sociale di persone svantaggiate – detenuti, ex detenuti, donne, minori, migranti e adulti in difficoltà – e per il recupero alla legalità di soggetti a rischio, attraverso progetti volti all’autonomia dell’individuo, alla tutela dei diritti, all’uguaglianza, alla legalità, all’integrazione e alla cittadinanza attiva.

 

In occasione del venticinquesimo anno della nostra storia – iniziata il 27 novembre del 1998 – abbiamo deciso di condividere insieme a voi la passione e l’amore che caratterizzano il nostro lavoro quotidiano. Vi invitiamo sabato 2 dicembre 2023 a un brunch durante il quale, attraverso una serie di tappe, potrete conoscere meglio i progetti più e meno recenti, sviluppati in carcere o nelle strutture di accoglienza per persone detenute che scontano parte della loro pena in misura alternativa. 

L’evento si terrà sabato 2 dicembre 2023 dalle ore 11:00 alle ore 17:00 a L’Archivio 14 – Via Lariana,14 RM. Riserva il tuo posto inviando una mail di conferma all’indirizzo pidonlus@gmail.com 

All’entrata vi sarà richiesto un contributo minimo di 15 € grazie al quale ci aiuterete a sostenere e promuovere le nostre iniziative, allo stesso tempo ci permetterete di condividere con voi un gustoso pasto a buffet, percorrendo le tappe del percorso che abbiamo pensato per voi.

Mostra e laboratorio di arteterapia

L’arteterapia è una forma di approccio alla persona che utilizza il canale non verbale mediato da diversi strumenti artistici, per raggiungere diversi obiettivi cognitivi, emotivi e sociali e per supportare lo sviluppo positivo degli individui.

ll progetto è stato pensato e costruito per  persone ristrette all’interno della 3° Casa Circondariale Roma Rebibbia da Monica Giaquinto, psicologa e arteterapeuta del team PID. 

Durante l’evento sarà possibile vedere le opere prodotte durante i laboratori e Monica organizzerà con voi un piccolo laboratorio per farvi avvicinare all’arteterapia; la partecipazione è volontaria e prenotabile all’entrata. 

L’angolo dei gadget

I nostri gadget nascono tutti da progetti interni ed esterni alle mura dei penitenziari in cui abbiamo lavorato, nascono dalle riflessioni e dalla creatività delle persone ristrette a cui il nostro costante impegno è rivolto. 

Sarà possibile acquistare i gadget per sostenere le attività della Cooperativa PID.

La creatività di un prigioniero

Mostra delle opere di un artista recluso. Come l’arte e la creatività riescono ad abbattere i muri.

Sarà possibile  ammirare ed acquistare le opere presenti.

Aiutare chi ha sbagliato non è peccato

Sostenere PID Onlus vuol dire contribuire allo sviluppo di attività, servizi e progetti a favore di persone in difficoltà nel cammino verso l’integrazione e l’inclusione.

Grazie al vostro impegno, ci permetterete di pianificare meglio le nostre azioni, garantendo maggior continuità ed efficacia ai nostri progetti. 

Nel caso in cui non riusciate a essere presenti all’evento ma volete donare un contributo alla Cooperativa, sul nostro sito (www.pidonlus.it) troverete tutte le informazioni necessarie per farlo.

QUI PER SCOPRIRE COME SOSTENERCI

Inoltre, sulle nostre pagine social di Facebook e Instagram potrete seguire i percorsi e le iniziative elaborate per le persone ristrette o che scontano la loro pena in misura alternativa, avendo accesso diretto alle loro riflessioni scritte sul blog “Passo dopo Passo” attivo da febbraio 2023. 

 

I pregiudizi sull’educatore “maschio”

Andrea

Durante la mia attività lavorativa di educatore professionale spesso mi sono trovato a confrontarmi con una serie di pregiudizi di genere, dovuti al fatto che ad alcuni sembra  “strano” e non “normale” il fatto che un uomo svolga compiti educativi e che abbiano attinenza con il “prendersi cura”.

Il mio lavoro si è incentrato maggiormente su un target adulto, avendo lavorato principalmente con persone incorse in reato e provenienti da contesti di marginalità sociale. Sia lavorando in carcere (dove la figura preposta al ruolo educativo viene declinata quasi esclusivamente al femminile) che nelle strutture di accoglienza per detenut* ed ex-detenut* mi sono trovato quasi sempre ad essere l’unico elemento maschile nel’equipe di lavoro.  Anche durante il percorso universitario mi sono quasi sempre confrontato esclusivamente con colleghe di sesso femminile, con ciò toccando con mano un pregiudizio di fondo che condiziona evidentemente anche la scelta del percorso formativo.

Nella costruzione di un rapporto educativo proficuo tra educatore ed educando è opportuno sgombrare il campo fin da subito da tutto ciò che riguarda pregiudizio (da entrambe le figure in gioco) e concentrarsi sulla creazione di un rapporto di fiducia, che deve guidare ed essere da base del rapporto educativo in costruzione. Muovendomi nel mondo della detenzione, dove più del 95% delle persone sottoposte a restrizione della libertà personale sono di sesso maschile, ho sperimentato spesso una grande differenza di approccio da parte dell’utenza verso la mia figura rispetto alle mie colleghe. In molti casi, il detenuto di sesso maschile è abituato, fin dal suo ingresso in carcere, all’interazione con personale civile principalmente di sesso femminile. Questo porta, durante la costruzione del rapporto educativo con un educatore maschio, ad un’iniziale diffidenza.

Per questo il mio obiettivo iniziale, nella costruzione di una relazione educativa, spesso è l’abbattimento delle barriere e la conquista di una piena fiducia professionale da parte dell’utenza. Successivamente la competenza che entra in gioco è l’empatia e la capacità di saper dare una risposta ai bisogni degli utenti. Su questo piano riesco ad essere efficace, dimostrando che l’empatia non è, come lo stereotipo di genere vuole, una competenza esclusivamente femminile. Osservando il lavoro delle mie colleghe, e come l’utenza maschile interagisce con loro, ho notato che una grande difficoltà iniziale,nella costruzione del rapporto educativo con un nuovo utente, sta nel farsi accettare professionalmente e non semplicemente in quanto donna. 

Sono pur sempre persone deprivate sessualmente, che vivono in condizioni di segregazione, per cui non è scontato che da subito avviino una relazione educativa seria, in quanto spesso viene inquinata da tentativi di approccio “altri”. In alcune situazioni proprio l’essere un uomo ha facilitato il mio lavoro, soprattutto in carcere, nell’interazione con persone provenienti da “culture tradizionali” (spesso di religione islamica), che invece avevano delle difficoltà ad interagire e raccontarsi con le mie colleghe, dato il diverso rapporto uomo-donna nelle differenti culture che si traduceva nella difficoltà di interagire e di riconoscere l’autorevolezza di figure femminili.

Quindi sempre di stereotipi di genere si tratta!

Un altro ambito educativo dove lo stereotipo di genere è duro a morire lo ritroviamo specialmente in quei contesti dove entra in gioco la forza fisica: in caso di utenti/pazienti che hanno bisogno di essere contenuti o gestiti in maniera più fisica si invoca spesso la necessità di avere operatori maschi, associando con ciò l’essere maschio con l’esercizio della forza. Questo, nonostante la richiesta venga dal mondo del lavoro, inizialmente potrebbe sembrare un’apertura e un cambio di rotta nella percezione del ruolo educativo come tendenzialmente appannaggio di operatrici di sesso femminile, in realtà, sottolineando e rimarcando gli stereotipi di genere, rinforza la netta distinzione dei ruoli educativi: le donne per la cura e gli uomini per l’utilizzo della forza

Ovviamente il mio breve scritto vuole essere semplicemente una testimonianza di come gli stereotipi di genere siano molto presenti nel lavoro educativo, di come essi siano una variabile che va sicuramente tenuta in considerazione quando si imposta un progetto educativo, e di come essi vadano innanzitutto individuati, esplicitati e quindi gestiti, così da diventare degli strumenti da utilizzare per rendere più proficuo ed efficace il nostro lavoro.

Lavorare nel terzo settore

Quando ci chiedono che lavoro facciamo e rispondiamo che siamo operatori di una cooperativa sociale che lavora nel terzo settore non sempre i nostri interlocutori sembrano capirci.

Proviamo allora a spiegare velocemente: con la definizioneterzo settore” si intende l’insieme di enti di carattere privato che operano con finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale; operano quindi al di fuori del settore pubblico e di quello commerciale ma si affiancano e interagiscono con entrambi per l’interesse delle comunità.

Nonostante il Terzo settore esista da decenni è stato riconosciuto giuridicamente in Italia solo nel 2016 ma a nostro avviso ancora non viene riconosciuta pienamente l’importanza che ricopre non solo in termini di impegno sociale ma anche in termini economici.

Le realtà del terzo settore sono portatrici di professionalità, esperienza, impegno e memoria ma spesso (quasi sempre anzi) vengono considerate dalle istituzioni come mere esecutrici di servizi. 

Al di là del settore di intervento che caratterizza il lavoro dei vari enti del terzo settore (disabilità, dipendenze, detenzione…) parliamo di un settore dinamico composto da persone con professionalità specifiche ed esperienza che converrebbe coinvolgere anche nella programmazione dei servizi e non solo nell’esecuzione in quanto gli operatori sociali sono sempre in prima linea e conoscono e presagiscono quelle che sono le emergenze sociali in continuo mutamento.

Inoltre capita frequentemente che i servizi non siano finanziati in maniera adeguata o che lo siano per periodi troppo brevi e di fatto queste cose impediscono di lavorare con sguardo ampio e strumenti adeguati e la continua precarietà influisce inevitabilmente e negativamente sugli operatori e ancor più sull’utenza finale.

Avere più strumenti permetterebbe di raggiungere risultati dal più ampio impatto sociale.

Quello che notiamo inoltre è che spesso non vengono riconosciute le professionalità, chi lavora nel sociale viene visto come un volontario, una persona di buona volontà che mette a disposizione il suo tempo libero. La buona volontà sicuramente c’è in chiunque scelga di fare questo lavoro ma oltre a quella vengono messe in gioco competenze specifiche ed esperienze che andrebbero non solo riconosciute ma anche valorizzate.

In questi ultimi anni finalmente è stato trovato lo strumento della “coprogettazione” che prevede la progettazione e la successiva realizzazione di uno specifico intervento sociale attraverso l’integrazione tra enti pubblici e enti del terzo settore che scelgono di lavorare in modo sinergico avendo come obiettivo condiviso la risposta ad uno specifico bisogno sociale: una nuova sfida e un nuovo percorso che siamo pronti ad intraprendere!

Livia

Riflessioni sul ruolo dell’educatorɘ: il burnout, un mostro sempre in agguato?

Nell’ambito della nostra attività quotidiana di educatorɘ ci troviamo spesso a fare i conti con situazioni di stress lavorativo che possono arrivare a minare il nostro equilibrio e la nostra produttività, fino ad arrivare a casi estremi in cui si manifesta quello che ormai l’OMS definisce come vera e propria sindrome: il burnout. L’operatorɘ in burnout arriva ad una sorta di esaurimento delle proprie risorse interiori, deteriorate da una condizione di disagio diffusa dovuta alla sovraesposizione al lavoro e alla ridotta capacità di far fronte alle criticità quotidiane. Questo esaurimento si manifesta con la disaffezione verso il lavoro, con un aumentato cinismo e distacco che mina alle basi qualsiasi intervento educativo.

L’argomento è quasi tabù, affrontarlo o ammettere di averci fatto i conti nella propria vita lavorativa può essere letto come mancanza di professionalità, come inidoneità allo svolgere una professione delicata che ha al centro una relazione di aiuto. In realtà per mantenere uno standard lavorativo alto e preservare il proprio equilibrio mentale è prioritario rendersi conto delle proprie debolezze e fragilità, trovare il modo per affrontarle sia individualmente che nel gruppo di lavoro.

Nella mia esperienza lavorativa nella Cooperativa PID mi sono trovato spesso in periodi e situazioni molto stressanti, dovute al sovraccarico lavorativo e alla particolare tipologia di utenti con cui mi sono trovato a confrontarmi negli anni. Il primo rifugio e approdo sicuro nei periodi più pesanti è stato senz’altro il confronto di gruppo, il poter contare sulle colleghe di lavoro e sul lavoro in equipe, l’aver avuto sempre persone vicine che mi hanno fornito sostegno e l’opportunità di confrontarmi e di esplicitare le criticità con cui mi sono trovato di volta in volta a fare i conti. La supervisione di uno specialista poi è stata un’arma in più, che mi ha permesso di avere un approccio più riflessivo e distaccato dalle dinamiche quotidiane, una chiave di lettura esterna che ha contribuito a farmi vedere i problemi da altri punti di vista, arricchendo la mia capacità di trovare soluzioni e di non farmi sovrastare dalle criticità quotidiane, applicando metodologie che mi hanno consentito nel tempo di tenere sotto controllo il lavoro e la sua incidenza sul mio equilibrio psichico.

Soprattutto una volta preso in carico un nuovo utente, e successivamente nel percorso di accompagnamento nella strada verso il reinserimento, si instaura un rapporto molto profondo e diretto con l’utenza, ed è quindi opportuno impostare il rapporto con le persone in carico in maniera chiara, senza lasciar spazio ad ambiguità, in modo da palesare e rendere chiaro il proprio ruolo di “accompagnatore” in un percorso di reinserimento nella società civile, percorso mai scontato ed immediato, che necessita di costante monitoraggio e sostegno da parte dell’educatorɘ professionale. Instaurare un rapporto troppo amicale, diretto, senza filtri e senza paletti con l’utenza può portare al rischio di creare confusione nell’ospite, che cercherà di colmare una serie di deprivazioni cui la sua condizione di detenzione passata o presente l’ha esposto, deprivazioni soprattutto affettive e relazionali, con un rapporto troppo stretto e scorretto con l’educatore, che viene quindi investito di aspettative e richieste crescenti cui non potrà far fronte nel medio-lungo periodo, generando frustrazione nel lavoratore e disaffezione nell’utente. 

Spesso mi sono trovato a dover ribadire, con la dovuta delicatezza per non compromettere il rapporto educativo costruito con l’utente, che il mio ruolo non è assimilabile a quello di un amico, di un confidente, ma appunto è quello di una persona che si pone degli obiettivi, professionali, in comune con l’utente, ovvero, in primis, il raggiungimento di una condizione di autonomia che porti la persona a riprendere le redini della propria vita. 

Nel rapporto che si instaura con le persone prese in carico a volte è necessario mettere degli argini, per evitare di dedicarsi h24 al lavoro, e di dare la falsa illusione all’utente di “esserci sempre”. Il corretto rapporto con l’utente, secondo me, si raggiunge quando entrambi gli attori del rapporto educativo hanno chiaro il reciproco ruolo, e in quell’ambito agiscono per raggiungere quelli che sono gli obiettivi comuni.

Penso che sia importante anche affrontare in maniera riflessiva il proprio lavoro, avere degli spazi e dei luoghi in cui si parli non dell’oggetto del lavoro, ma del lavoro in sé, mettendo al centro gli operatorɘ e dando il giusto spazio alle differenti individualità che compongono un’equipe che si occupa di interventi socio-assistenziali. 

Anche l’avere uno spazio per esprimere le proprie idee, riflessioni e valutazioni, come questo che sto utilizzando in questo momento nell’ambito del blog “Passo dopo passo”, è senza dubbio un elemento positivo che mi aiuta in tal senso.

Francesco