Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

Tag: educazione

A un anno dalla nascita del blog

Il 13 febbraio dello scorso anno abbiamo pubblicato “ufficialmente” questo blog. Dopo mesi di preparazione, di aspettative, di negoziazioni si è detto a un certo punto: «Ok, puoi andare».

 

Passo dopo Passo è nato con tanti obiettivi, tante speranze e prospettive che in un anno non hanno fatto altro che moltiplicarsi. Se inizialmente abbiamo dato quasi un taglio diaristico, con le voci delle persone detenute all’interno delle strutture di accoglienza gestite della cooperativa PID Onlus, con il tempo si sono aggiunti punti di vista e penne critiche che hanno determinato quel che a me piace chiamare “la rubrica del ricercatore spossato”. C’è chi scrive delle proprie esperienze di dentro, chi decide di dire la sua su un fatto di cronaca, chi vuole raccontare il proprio lavoro, chi ancora riorganizza tutte queste informazioni con la speranza di aprire riflessioni più ampie. Abbiamo utilizzato e continueremo a utilizzare questo blog per dire dei progetti o per informare sulle questioni del carcere in Italia. Scorrendo tutti i 60 articoli prodotti fin qui cresce dentro un senso di soddisfazione generativa che dà risposta alla domanda che tante volte mi sono ritrovata a pormi: «perché lo fai?». Per non parlare del fatto che mi è quasi impossibile selezionare “articoli preferiti”, tutti sono unici a loro modo per il semplice motivo per cui sono stati scritti. 

È travolgente la micro realtà in cui ti immergi.

Così l’abbracci.

Esseri umani: questa la parola che più ho sentito pronunciare durante le mie chiacchierate con le persone seguite dal PID.

Esseri umani in quanto partecipi del rapporto tra individui, persone.

Le dinamiche che si intrattengono in Carcere, l’immediatezza dei ruoli, la consapevolezza sbiadita: fuggevole, attrice, di protesta e sostanziosa – la voce che racconta la complessità della vita.

Questa la realtà, il motivo della nascita di Passo dopo Passo sorge spontaneo.

A un anno dalla nascita del blog abbiamo vissuto avventure di ogni tipo, dall’organizzazione dell’evento celebrativo del nostro lavoro come cooperativa-famiglia, ai primi passi oltre i cancelli del carcere. Ho avuto la fortuna di vedere le persone uscire, ricostruire nuove libertà e nuove opportunità, ho ascoltato la pienezza delle parole «ho finito, non ho più nulla da pagare, ho pagato tutto». Le persone hanno attraversato la casa famiglia, l’hanno vissuta imprimendo la propria traccia sui balconi colorati di un semplice appartamento romano, raccontando parte della loro storia al mio registratore e lasciando che quella storia arrivasse a voi, su questo blog. Un po’ custode di qualcosa che doveva essere detto, che voleva essere narrato. 

Ogni settimana, da quando abbiamo aperto il blog, mi metto a pensare a cosa pubblicare. Non è semplice perché vorrei scrivere robe super “accademiche”, dimenticando che l’obiettivo iniziale era far parlare chi il carcere l’ha vissuto (e magari lo vive ancora). Da quando ho incontrato O, nonostante le difficoltà iniziali, nonostante ancora oggi a volte la comunicazione sia tutt’altro che semplice, il giovedì ricevo puntualmente articoli di innegabile coinvolgimento emotivo. Mi ricorda perché non posso smettere anche se a leggerci siete in pochi, perché mi piace quello che ho scelto di fare, perché ho “bisogno” di continuare a formarmi. 
Quanto è bella la voglia di condividere la propria voce anche quando nessuno l’ascolta o anche quando magari non riceve prontamente risposta. 

A un anno dalla nascita del blog abbiamo visto il mondo chiudersi lentamente e con ferocia, abbiamo sentito stringere il nodo alla gola, la paura che professionalità, dedizione e pazienza non sarebbero più bastati a svolgere al meglio il nostro lavoro. Che le persone detenute, un po’ di più di tutte le altre, non avrebbero neanche più avuto quei pochi diritti che faticano a stringere nelle mani. E tutto sempre con la consapevolezza di quanto sia semplice essere fraintesi quando si parla di carcere, di detenzione, di persone che hanno leso altre persone o le loro proprietà. Ho scritto già da qualche parte che «Quando ci si ritrova in questi discorsi, il rischio è sempre quello di sembrare i grandi giustificatori degli atti criminali, in fondo quel che si cerca qui di sostenere è che il confine tra quel che si considera giusto e quel che si considera sbagliato è troppo labile per perderci in generalizzazioni di questo tipo». 

 

Questa è la società che abbiamo, durante questi lunghi e complessi secoli, costruito. Riconosco a volte con amarezza e disillusione che il desiderio di un mondo più giusto e sicuramente più umano nel pieno senso della parola è una visione utopistica. Forse lo è sempre stata, forse lo sarà sempre.  Sono sistemi complessi che hanno un’altrettanto complessa moltitudine di “ragioni”. Non possiamo negare che figli e figlie della nostra cultura siamo costantemente incazzate e incazzati, senza sapere precisamente il perché. Tutto è così confuso. 

Siamo complici nel guardare un mondo di conflitti, nel vomitevole impigliarsi di una storia feticista. E noi nel nostro piccolo, con il nostro lavoro e il nostro blog cerchiamo di non esserlo. Le domande restano aperte, continuiamo a leggere e a formarci. Continuiamo a sederci su quel divano rosso e ascoltare chiunque in un modo o nell’altro ha esperito la violenza di fuori e di dentro. 

Qual è il confine tra la violenza legittima e illegittima?

 

Sono questi discorsi che lasceremo aperti per altri momenti di riflessione, più approfondita forse, meno pessimista. Ricomponiamoci gli animi per gioire anche un poco di tutto il lavoro svolto fino a oggi e di tutto quello che abbiamo davanti. 

A un anno dalla nascita del blog, sono molto grata per tutte le persone che hanno scritto qui, per tutte quelle che hanno letto e leggeranno le nostre parole. 

ALESSIA

Libertà dopo la reclusione: il reinserimento sociale dei detenuti analizzato con il principio di Pareto

Il periodo di reclusione rappresenta una tappa fondamentale nella vita di un individuo. Tuttavia, ancor più importante è il processo di reinserimento sociale che segue la fine della pena. In questo blog post, esploreremo il tema della libertà dopo la reclusione, analizzandolo attraverso il prisma del Principio di Pareto, noto anche come la regola dell’80/20. Scopriremo come questo principio possa fornire una prospettiva utile per affrontare le sfide e le opportunità che si presentano nel reinserimento dei detenuti nella società.

Il Principio di Pareto afferma che, in molti contesti, l’80% degli effetti è determinato dal 20% delle cause. Questo principio può essere applicato anche al reinserimento sociale dei detenuti. Infatti, un piccolo numero di fattori critici può influenzare in modo significativo la riuscita o il fallimento di tale processo.

Educazione

Offrire opportunità di istruzione e formazione professionale ai detenuti può fornire loro le competenze necessarie per trovare un impiego stabile una volta liberati. Investire nel potenziale di crescita personale e professionale dei detenuti può contribuire a ridurre il tasso di recidiva e consentire loro di diventare membri “produttivi” della società.

Supporto psicologico

La reclusione può lasciare cicatrici emotive e psicologiche profonde. È essenziale fornire un adeguato supporto psicologico ai detenuti, aiutandoli a elaborare il loro passato e a costruire una visione positiva per il futuro. Terapie individuali e di gruppo, programmi di reinserimento gradualmente progressivi e sostegno sociale possono giocare un ruolo significativo nel favorire una transizione positiva.

Sostegno comunitario

Sensibilizzare l’opinione pubblica, eliminare il pregiudizio e promuovere la comprensione sono requisiti fondamentali per creare un ambiente favorevole all’accettazione dei detenuti che cercano di ricostruire le proprie vite. Programmi di reinserimento basati sulla collaborazione tra enti penitenziari, organizzazioni no-profit e imprese locali possono agevolare la transizione dei detenuti verso una vita autonoma e produttiva.

 

Il reinserimento sociale dei detenuti richiede uno sforzo collettivo per superare le sfide che essi affrontano una volta concluso il periodo di reclusione. Applicando il Principio di Pareto, possiamo concentrarci sugli aspetti chiave che possono influenzare positivamente il processo di reinserimento. Investire nell’educazione, nel supporto psicologico e nel sostegno comunitario: agire sul 20% delle cause, può aiutare a mitigare l’80% degli effetti.

L’educazione in carcere come chiave del reinserimento sociale dei detenuti

MATTEO

L’educazione in carcere è un argomento di cruciale importanza che merita particolare attenzione perché riguarda il benessere e il futuro non solo dei detenuti, ma anche delle loro comunità e della società nel suo complesso.

In questo articolo, esploreremo l’importanza dell’educazione in carcere e in che modo essa possa contribuire a un cambiamento positivo nella vita dei detenuti.

Mentre le prigioni svolgono il ruolo di punizione e sono ruoli con un alto livello di sicurezza, è fondamentale riconoscere il potenziale trasformativo dell’istruzione all’interno di queste strutture. L’educazione può rappresentare una vera e propria svolta nella vita dei detenuti, fornendo loro le competenze necessarie per il reinserimento sociale, riducendo la recidiva e creando opportunità di crescita personale. Ma vediamo insieme in che modo:

Riduzione della recidiva attraverso l’istruzione

Numerosi studi dimostrano che i detenuti che partecipano a programmi educativi hanno maggiori probabilità di trovare lavoro dopo il rilascio e di mantenere un percorso di vita lontano dal crimine. Acquisire competenze di base come la lettura, la scrittura e la matematica, insieme a competenze professionali, fornisce ai detenuti una base solida per costruire una vita migliore una volta fuori dal carcere.

L’educazione in carcere per la crescita personale e autostima

L’educazione in carcere non riguarda solo l’acquisizione di conoscenze pratiche, ma può anche promuovere la crescita personale e l’autostima. Attraverso il processo di apprendimento, i detenuti possono scoprire nuove passioni, sviluppare l’autostima e costruire una visione positiva del loro futuro. L’educazione offre loro l’opportunità di reinventarsi e di costruire una nuova identità basata sulle competenze acquisite.

Preparazione per il reinserimento sociale

Il periodo di detenzione rappresenta una pausa forzata nella vita di un detenuto, ma può anche essere un’opportunità per prepararsi al ritorno nella società. L’educazione in carcere aiuta i detenuti a sviluppare competenze sociali, migliorare la capacità di risolvere problemi e apprendere strategie di gestione dell’ira e del conflitto. Queste abilità sono fondamentali per affrontare le sfide che si presentano al momento del rilascio e per integrarsi positivamente nella comunità.

Le opportunità di apprendimento e riscatto dell’educazione in carcere

L’educazione in carcere offre ai detenuti l’opportunità di riscatto e di rompere il ciclo del crimine. Attraverso l’apprendimento, possono dimostrare un impegno per il cambiamento e mostrare che sono disposti a investire in se stessi. Questo può avere un impatto positivo sulla percezione della società verso i detenuti e sulla loro capacità di reintegrarsi come cittadini responsabili. L’educazione in carcere offre una via per la redenzione e la possibilità di costruire una vita migliore.

In questo contesto, è importante promuovere l’accesso all’istruzione all’interno delle strutture carcerarie e fornire risorse adeguate per sostenere tali programmi. Solo attraverso un impegno collettivo possiamo aprire le porte a un futuro migliore per i detenuti e per la società nel suo complesso.

L’educazione in carcere ha il potere di cambiare vite, rompere cicli di criminalità e creare un impatto positivo sulle comunità. Dobbiamo considerarla come un investimento nell’umanità, perché quando i detenuti acquisiscono conoscenze e competenze, diventano membri produttivi della società e hanno la possibilità di costruire una vita migliore per sé stessi e per le loro famiglie.

Attraverso programmi educativi mirati, sostegno emotivo e opportunità di reinserimento sociale, possiamo aprire nuove strade per le persone “di dentro” e costruire una società più equa.

I pregiudizi sull’educatore “maschio”

Andrea

Durante la mia attività lavorativa di educatore professionale spesso mi sono trovato a confrontarmi con una serie di pregiudizi di genere, dovuti al fatto che ad alcuni sembra  “strano” e non “normale” il fatto che un uomo svolga compiti educativi e che abbiano attinenza con il “prendersi cura”.

Il mio lavoro si è incentrato maggiormente su un target adulto, avendo lavorato principalmente con persone incorse in reato e provenienti da contesti di marginalità sociale. Sia lavorando in carcere (dove la figura preposta al ruolo educativo viene declinata quasi esclusivamente al femminile) che nelle strutture di accoglienza per detenut* ed ex-detenut* mi sono trovato quasi sempre ad essere l’unico elemento maschile nel’equipe di lavoro.  Anche durante il percorso universitario mi sono quasi sempre confrontato esclusivamente con colleghe di sesso femminile, con ciò toccando con mano un pregiudizio di fondo che condiziona evidentemente anche la scelta del percorso formativo.

Nella costruzione di un rapporto educativo proficuo tra educatore ed educando è opportuno sgombrare il campo fin da subito da tutto ciò che riguarda pregiudizio (da entrambe le figure in gioco) e concentrarsi sulla creazione di un rapporto di fiducia, che deve guidare ed essere da base del rapporto educativo in costruzione. Muovendomi nel mondo della detenzione, dove più del 95% delle persone sottoposte a restrizione della libertà personale sono di sesso maschile, ho sperimentato spesso una grande differenza di approccio da parte dell’utenza verso la mia figura rispetto alle mie colleghe. In molti casi, il detenuto di sesso maschile è abituato, fin dal suo ingresso in carcere, all’interazione con personale civile principalmente di sesso femminile. Questo porta, durante la costruzione del rapporto educativo con un educatore maschio, ad un’iniziale diffidenza.

Per questo il mio obiettivo iniziale, nella costruzione di una relazione educativa, spesso è l’abbattimento delle barriere e la conquista di una piena fiducia professionale da parte dell’utenza. Successivamente la competenza che entra in gioco è l’empatia e la capacità di saper dare una risposta ai bisogni degli utenti. Su questo piano riesco ad essere efficace, dimostrando che l’empatia non è, come lo stereotipo di genere vuole, una competenza esclusivamente femminile. Osservando il lavoro delle mie colleghe, e come l’utenza maschile interagisce con loro, ho notato che una grande difficoltà iniziale,nella costruzione del rapporto educativo con un nuovo utente, sta nel farsi accettare professionalmente e non semplicemente in quanto donna. 

Sono pur sempre persone deprivate sessualmente, che vivono in condizioni di segregazione, per cui non è scontato che da subito avviino una relazione educativa seria, in quanto spesso viene inquinata da tentativi di approccio “altri”. In alcune situazioni proprio l’essere un uomo ha facilitato il mio lavoro, soprattutto in carcere, nell’interazione con persone provenienti da “culture tradizionali” (spesso di religione islamica), che invece avevano delle difficoltà ad interagire e raccontarsi con le mie colleghe, dato il diverso rapporto uomo-donna nelle differenti culture che si traduceva nella difficoltà di interagire e di riconoscere l’autorevolezza di figure femminili.

Quindi sempre di stereotipi di genere si tratta!

Un altro ambito educativo dove lo stereotipo di genere è duro a morire lo ritroviamo specialmente in quei contesti dove entra in gioco la forza fisica: in caso di utenti/pazienti che hanno bisogno di essere contenuti o gestiti in maniera più fisica si invoca spesso la necessità di avere operatori maschi, associando con ciò l’essere maschio con l’esercizio della forza. Questo, nonostante la richiesta venga dal mondo del lavoro, inizialmente potrebbe sembrare un’apertura e un cambio di rotta nella percezione del ruolo educativo come tendenzialmente appannaggio di operatrici di sesso femminile, in realtà, sottolineando e rimarcando gli stereotipi di genere, rinforza la netta distinzione dei ruoli educativi: le donne per la cura e gli uomini per l’utilizzo della forza

Ovviamente il mio breve scritto vuole essere semplicemente una testimonianza di come gli stereotipi di genere siano molto presenti nel lavoro educativo, di come essi siano una variabile che va sicuramente tenuta in considerazione quando si imposta un progetto educativo, e di come essi vadano innanzitutto individuati, esplicitati e quindi gestiti, così da diventare degli strumenti da utilizzare per rendere più proficuo ed efficace il nostro lavoro.

Guardare il mondo da un balcone

Il primo incontro con E sul balcone della struttura è stato decisivo per scegliere l’argomento di questo articolo. E ci racconta come, osservando le persone che passano per la strada, nascono le riflessioni più stimolanti. 

Osservare la vita degli altri dal balcone, è proprio vero, ti lascia delle riflessioni importanti: ti permette di vedere la vita da molti punti di vista. Ragionamenti che ti fanno vedere la vita in diverse dimensioni, le quali spesso ti fanno salire la rabbia per delle situazioni ingiuste che si osservano.

Vedo spesso qui sotto passare una donna, una signora anche molto anziana che rovista nella spazzatura. Penso ci voglia veramente una bella forza d’animo per scendere al gradino più basso della dignità a rovistare nella spazzatura per cercare del cibo.

Vedo anche gente giovane a rovistare nella spazzatura. Dov’è la realizzazione di una persona? Io non lo capisco. 

Le condizioni di lavoro e gli stipendi dei giovani sono abbastanza dignitosi per permettere a un giovane che non ha una famiglia di vivere, non di sopravvivere?

E per tutti quei giovani che passano gli anni a studiare, anche con risultati eccellenti, che si ritrovano poi a lavorare come camerieri? 

Si aprono dentro di me una serie infinita di pensieri sulle condizioni dell’uomo nella società contemporanea che spesso non trovano risvolti. 

La vita di per sé è un sacrificio continuo, il sacrificio serve sempre per modificare in meglio la propria vita. 

Oggi quando io sono sul balcone mi guardo intorno e vedo le case, le famiglie di persone benestanti e i ragazzini che si divertono per la strada la sera: vedo la spensieratezza, con poca consapevolezza delle realtà di disagio che esistono concretamente nella nostra società. Se mi sposto in un altro quartiere diverso però noto una realtà molto differente rispetto a questa. 

E allora quello che sul balcone mi fa riflettere principalmente sono le contraddizioni della vita sociale

Tutti siamo esseri umani però non è vero, noi abbiamo classificato le persone in base all’utile che rappresentano. 

Lasciare sempre aperta la porta della diffidenza nei confronti dell’altro mi sembra importante, è quello che consiglio spesso ai miei figli: un meccanismo di difesa fittizio perché pensi di proteggere te stesso in questo modo ma di fatto non succede.

Quando sei in una situazione di obbligo gli sforzi dovrebbero essere sempre più intensi per cercare di rendere meno pesanti le contraddizioni della vita sociale e per farlo è importante sempre la conversazione tra gli individui.

Diametralmente opposto all’episodio della vecchietta che raccoglieva la spazzatura, il quale va ad evidenziare una problematica radicata nel profondo del nostro paese, c’è l’espressione dell’umanità che si cura della propria comunità nella figura della “signora ecologica”.

Una donna che passa sotto il balcone della struttura e pulisce la strada dall’immondizia. Un gesto nobile che ti fa ragionare: una differenza sostanziale rispetto a molte altre persone che si vedono passare e buttare le cose in ogni posto, senza avere cura di nulla. 

Penso che la signora voglia giustamente mantenere un certo decoro urbano e potrebbe essere considerata proprio nel ruolo del buon cittadino, un ruolo marginale se si pensa al menefreghismo che regna nella società di oggi.

Quello che fa la signora ecologica dovrebbe rappresentare un esempio per tutti su come ci si deve comportare nelle città italiane, perché chiaramente in altri posti del mondo la situazione cambia e non poco, ma questa rimane un’utopia

Noi siamo consapevoli di ciò che ci circonda ma siamo abituati a questo: è una questione culturale. Non cambierà nulla dunque, finché non verranno predisposte delle strutture, messe in atto delle strategie per sensibilizzare ed educare le persone a vivere in società

LE PAROLE DI E

Tirocinio all’interno di una struttura di accoglienza per detenuti: in che senso?

È sempre divertente dire alle persone che ho svolto il tirocinio con la Cooperativa PID dentro una struttura di accoglienza per persone detenute e/o ex detenute. Le facce dei miei interlocutori si colorano spesso di domande che non riescono a essere formulate per paura di risultare insensibili o ignoranti: più o meno la stessa cosa di quando dico che studio antropologia.

Non è pericoloso? Ma quindi significa che stanno agli arresti? Vabbè ma mica hanno fatto cose gravi altrimenti non te li facevano vede’, no? Scusa eh, questi stanno dentro ‘na casa a fa’ che? E tu che fai, ma perchè?  

Il mio perché nasce da molto lontano, ero appena una teenager – potremmo dire – quando mia sorella che era alle scuole superiori torna a casa con il saggio di Beccaria “Dei delitti e delle pene” e inizia a spiegarmi quanto fosse ingiusta la pena di morte.

Negli anni, il mio interesse per le marginalità sociali, le ragioni che ne sono la base, le dinamiche culturali che le alimentano, le simbologie attraverso cui esse sono rappresentate nella quotidianità di tutti è andato costruendosi attorno alla mia persona: io ho fatto spazio a quella voce che ha iniziato a spingere sempre più forte una volta avvenuto il reale contatto con le persone prese in carico dalla Cooperativa.

Mi sembra quindi essenziale ripercorrere insieme i passi che ci hanno portato a scegliere di realizzare questo blog, introducendo con questo articolo un’esperienza totalmente soggettiva dell’incontro tra una studentessa, due educatori e sei persone che Passo dopo Passo si apprestano ad abbracciare una società nuova, diversa da come l’avevano lasciata. 

Gradualmente 

Quando per la prima volta ho aperto il portone di casa, la luce del sole mi ha accolto. Non è una costruzione meramente letteraria, perché effettivamente succede ogni volta: tutto il corridoio che attraversa orizzontalmente lo spazio che ti si presenta davanti si irradia. 

E all’inizio non senti neanche un rumore. 

Sono da subito entrata in una dimensione altra, l’ho sentita sulla pelle che lasciavo fuori da quella porta, abbandonando la persona che pensavo di dover essere, mettendo tutto il mio centro nelle mani di chi sapevo avrei presto incontrato.  

Il primo giorno non ho conosciuto nessuno degli ospiti: sono andata subito in ufficio da Francesco, l’educatore in turno con il quale ho iniziato il percorso dentro la struttura.

Un po’ alla volta, in base agli impegni di tutti e le disponibilità, ci siamo pian piano lasciati conoscere, più di quanto avrei mai potuto pensare. 

James Clifford ne “Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia.” presenta il lavoro di Richard Price del 1983 “First-Time: The Historical Vision of an Afro-American People.” per illustrare un parallelismo fondamentale tra la modalità di trasmissione del sapere orale attraverso i racconti saramaka e la conoscenza parziale dell’etnografo del campo. Il paradosso individuato da Price durante la sua ricerca sta nel fatto che ⟪qualsiasi racconto saramaka […] rivelerà solo una piccola parte di quello che il narratore sa dell’evento che narra.⟫  

Il motivo che muove questo principio del Primo-Tempo si ritrova in una più ampia concezione della conoscenza del tale evento o sapere, in quanto essa deve essere graduale, deve cioè crescere un po’ alla volta e dunque ⟪l’oratore rivela di proposito ai suoi uditori solo un po’ di più di quello che ritiene già sappiano.⟫

Questo tipo di gradualità nella conoscenza del sapere saramaka accompagna l’etnografo nella consapevolezza dell’impossibilità, sia sua che dei singoli individui appartenenti alla data cultura, di ottenere un corpus “completo” del sapere del Primo-Tempo.

Ed è questa consapevolezza che accompagna ogni giorno il mio stesso rapporto con i protagonisti delle storie che andremo a raccontare. 

A guidare inizialmente la mia conoscenza degli ospiti sono gli educatori, Francesco e Livia che come il narratore saramaka fanno da filtro permettendomi di addentrarmi nelle trame della struttura di accoglienza: intenzionalmente tracciando una scala immaginaria di conoscenza per non farmi travolgere dalla realtà per intero ma conducendomi verso una graduale consapevolezza delle parti che la componevano, delle loro storie e delle loro scelte che su un piano strettamente morale non rispecchiano il tipo comune di persona con cui si è soliti entrare in contatto. 

Gradualmente le persone incontrate in questo percorso hanno scelto di raccontarsi e proprio per questo ci è sembrato importante strutturare i tempi di condivisione con la stessa ottica del Primo-Tempo: narrazioni parziali del sapere completo, un passo dopo l’altro, un articolo per volta.

Una struttura di accoglienza socio-assistenziale in favore di persone condannate e/o ex detenute

Inoltre, il concetto della gradualità ai fini della reintegrazione nella società civile è stato uno dei primi che la Cooperativa mi ha insegnato, anche in relazione al lavoro stesso degli educatori e più in generale dei percorsi degli utenti del PID, in quanto volti entrambi al graduale reinserimento sociale dei secondi.

Voglio spiegarvi il senso di questo concetto come l’ha fatto con me Francesco: avete presente quando da ragazzini ad un certo punto si è deciso di darvi le chiavi di casa? Ecco questo perché, al di là della necessità del possedere quelle chiavi, prima è stata testata la vostra puntualità al rientro e la stessa costanza nell’essere puntuali e diciamo così, nel dimostrarvi affidabili avete ottenuto la responsabilità di custodire le chiavi di casa. 

Cosa succede in una casa famiglia per detenuti o ex detenuti?

Le prestazioni offerte all’interno delle strutture gestite dalla Cooperativa PID sono volte alla reintegrazione nella società civile della persona ristretta

Lo scopo dell’accoglienza è quello di aiutare le persone con disagio a superare problematiche ed emergenze; sostenere e costruire insieme a loro il percorso volto al recupero di autonomia, opportunità, socializzazione e competenze. Per questo, viene impostata attraverso una modalità olistica che prevede da una parte semplicità familiare, dall’altra la consapevolezza professionale degli operatori nel confronto quotidiano delle problematiche degli ospiti. 

Il rapporto educatore-ospite si legge nelle trame di un sostegno concreto e doppio, nel senso che è costantemente caratterizzato dalla piena disponibilità dei primi e del loro sempre alto grado di attenzione alla qualità degli interventi.

Alessia Massaroni