Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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“La morte nel mio lavoro arriva sempre per telefono”

Le riflessioni di Laura dopo la notizia del suicidio a Ponte Galeria di una donna con la quale aveva lavorato 

Penso che la morte sia una cosa della vita, una di quelle dolorose. Ogni volta che mi ci sono trovata a contatto ho sempre avuto la sensazione  che la notizia mi arrivasse  da lontano, come un’eco che ti risuona dentro nel vuoto che quelle parole creano, il vuoto che fa spazio alla sensazione di dolore che presto ti avvolgerà e riempirà quel tempo del corpo inizialmente ed apparentemente sconfinato. Di fronte alla scomparsa di persone più o meno importanti della mia vita ho saputo istintivamente come comportarmi, ho capito che dovevo  imparare a dare un senso alla morte, trovarle un perché e ancor più quando questa si è presentata in maniera inaspettata e violenta, ogni volta sono riuscita a  tirarne fuori qualcosa.

 

Ma cosa bisogna provare se una persona per cui hai lavorato, per cui  e con cui hai cercato di costruire una via d’uscita da una vita che non le appartiene più, cosa bisogna provare se ti telefonano e ti dicono che questa persona si è impiccata a Ponte Galeria per la paura e la vergogna di essere  rimpatriata in un paese che era il suo solo anagraficamente? Qualcuno  mi dica cosa devo sentire.

 

Leggere una notizia del genere sul giornale  e darle un volto, una storia, una voce, un modo di parlare, degli occhi, un sorriso, pensieri, paure. Ecco questo cambia tutto. Lentamente diventa un fatto di cronaca, e i giorni, il tempo allontanano l’inquietudine ma lasciano spazio alla rabbia  che ara con calma un largo terreno dove  a coltivare riflessioni, quello che germoglia in breve tempo è frustrazione.

La sensazione viscerale si sviluppa nel distacco emotivo, un distacco necessario a sopravvivere per chi lavora “materiale umano”, e diviene impotenza dirompente, non è né il primo nell’ultimo nome che leggerò sul giornale,  ma solo incrociando la vita di questa donna, mi sono realmente resa conto che non sono solo nomi quelli che leggo, non che prima non lo sapessi, ma realizzarlo è differente.

 

La vita della gente sulle pagine dei giornali. E ognuno pensa  ciò che vuole, ognuno ha una sua opinione, in molti non battono ciglio, la vita di una persona nera fa meno notizia dell’ultima gaffe del presidente del consiglio, altri si arrabbiano, ma quanti poi alla fine si rendono conto di quello che stanno leggendo? Parliamo di persone il cui destino è scritto. Non lo è  nello “scegliere” di essere migranti, perché nella maggior parte dei casi non si tratta di scelte e per capirlo basta cercare di vestire altri i panni ed immaginarci a lasciare casa, affetti, figli, cultura, tutto quello che ci dà stabilità e  sicurezza, le uniche cose che rimangono ferme, immaginiamoci a salire su un aereo con un passaporto, 500 euro e una valigia se va bene e se va male a salire su un’imbarcazione di notte, nascosti, stipati come bestie e domandiamoci è una scelta questa? Domandiamoci qual è l’alternativa ad una scelta del genere? Il destino di queste persone è scritto e per la maggior parte di loro in percorsi di illegalità che sono lì pronti ad accoglierli e non è un segreto.

La cosa peggiore non è però che ci siano strade segnate dal passaggio di migranti e molte simili tra loro fatte spesso di fughe, violenze, arresti, droga, spaccio, prostituzione, furti e spesso necessariamente tossicodipendenza, l’orrore è capire che non è una strada ma una gabbia senza via di uscita studiata nel dettaglio da una società che ha bisogno di queste storie di queste vite per sopravvivere e produrre controllo. E mentre da una parte porta avanti la vecchia vecchissima deportazione di schiavi in catene che servono alla manodopera fondamentale per ogni paese (che oramai è troppo bassa quasi per chiunque  altro), dall’altra alimenta il razzismo e i conflitti mentre si copre di cristiana pietà.

 

La morte nel mio lavoro arriva sempre per telefono. Ahimé, ho una memoria fotografica e non dimentico mai un viso. E mentre quelle parole arrivano come un’eco, quello che visualizzo sono gli occhi delle persone e subito dopo la scena, come se fossi stata io a trovarle. Spesso e volentieri appese a una corda, perché tra i disperati impiccarsi va per la maggiore. Immagino la disperazione e quell’attimo. Perché di un attimo si tratta, di oscurità dove pensi che non ci sia alternativa alcuna se non questa. Vorrei potermela prendere con qualcuno vorrei che i meccanismi subdoli del potere avessero solo un volto, ma anche la dittatura si è modificata e continua a farlo proprio come un virus creato in laboratorio che  muta continuamente forma per non essere neutralizzato. Ma oggi è diverso, il fascismo è diverso e probabilmente dovrebbe avere anche un altro nome. Quella che abbiamo intorno è una dittatura mediatica infida, frutto di un lavoro lungo anni, fatta di pubblicità, televisione, di giornalismo pornografico, fatta di supermercati e di “formule” usa e getta, fatta di sfruttamento e di consumo e competizione che serve a dividere. Non è un nemico che si palesa ed è dunque difficile da individuare e combattere. Dico combattere perché è della nostra vita che si parla, perché tutti i meccanismi perversi sono riusciti ad entrarci dentro, nelle relazioni private, nei contesti lavorativi, nelle famiglie dentro ognuno di noi, ma  ognuno di noi può scegliere di ignorare o di non farlo, può scegliere di ignorare il trafiletto sul giornale che dice “clandestina si impicca” o può cominciare a farsi delle domande…e sarebbe già un buon inizio.

La storia di Giacomo – l’America

Mi è venuto a prendere mio fratello all’aeroporto, mi ha fatto aspettare 3 ore seduto, le ore più brutte. Non lo vedevo da 5- 6 anni, ma non è quello: è stato uno dei momenti più brutti perché l’ho aspettato da solo con i bagagli in mezzo alla strada, non parlavo la lingua, lì da solo sembrava che il tempo non passasse mai. Poi mi ha preso e mi ha portato a casa.

E quando  ho visto Los Angeles… madonna mia!

 

CONTINUA

 

Tra il 2009 e il 2019 Laura raccoglie la testimonianza di Giacomo. Giacomo, un ex detenuto ed ex utente del PID racconta la sua storia, condivide il suo percorso: dalla scelta di delinquere al carcere, alla misura alternativa. Abbiamo deciso di ripescare le sue parole e consegnarle allo spazio del blog un po’ alla volta. Così da darci il tempo di riflettere sulle esperienze vissute dal protagonista e tentare di ascoltarlo, comprenderlo e accoglierlo; evitando di cadere nella banalità di definire cos’è buono e cos’è cattivo senza considerare la complessità degli eventi che percorrono il quotidiano di un uomo. 

[…] che se prima di ogni nostro atto ci mettessimo a prevederne tutte le conseguenze, a considerarle seriamente, anzitutto quelle immediate, poi le probabili, poi le possibili, poi le immaginabili, non arriveremmo neanche a muoverci dal punto in cui ci avrebbe fatto fermare il primo pensiero.

José Saramago – “Cecità”

Sono stato un paio di mesi da mio fratello, e un giorno ho trovato un lavoretto di pulizie e sono andato. Ho conosciuto un uomo messicano e siamo diventati amici. Siamo ancora amici, mi ha dato una mano con tutto: i documenti, il lavoro, tutto.

Il nome non te lo posso dire – dice sorridendo – mi ha aiutato a comprare la green card.

Ho fatto amicizia e ho cominciato ad ambientarmi, a conoscere persone. C’era una famiglia italiana da cui andavo sempre a pranzo e a cena la domenica. Poi, piano piano ho fatto tutto. Non ho avuto problemi con la lingua, perché parlavano tutti spagnolo chiaro, “limpido”. Proprio tutti: argentini, messicani, parlavano tutti spagnolo. Certo un po’ di inglese sì, ma poco.

 

Sono stato dal 90 fino al 2007/2008 e poi sono tornato e mi sono consegnato che l’avvocato mi aveva detto che dovevo fare sette anni.

Sono mancato da casa 18 anni.

Se il dolore per la lontananza è stato duro da affrontare? 

 

Giacomo mi guarda prima di rispondere e capisco che si è dovuto inventare un modo per andare avanti, per sopportare.

 

Eh, non ci pensavo perché a casa non potevo telefonare: non sapevo a cosa andavo incontro. Non potevo mandare assegni, ogni tanto venivano loro, ma io non potevo perché  mi cercavano sia il gruppo che la polizia. Ogni tanto andavano da mia moglie, entrambi: le chiedevano, ma lei diceva che ci eravamo lasciati. L’avvocato mi aveva detto di non mandare niente e di non fare niente. E io che facevo? Non ci pensavo.

Ogni tanto una telefonata ma è terribile, è terribile. Sapevo le notizie tramite mia zia che stava lì in California: lei li chiamava e chiedeva notizie per me. E invece è stata una ca**ata perché non sapevano niente in Italia, infatti quando mi sono consegnato ho detto, “che st*o*zo”. Non sapevano niente.

 

Non li ho mai potuti far venire lì perché mia moglie non voleva, voleva  stare vicino alle figlie che stavano diventando grandi. Venivano uno, due mesi: una volta s’è stata tre mesi con la figlia piccola, che bello.

Ho sofferto, sì che ho sofferto.

Per esempio, quando è morto mio padre … Non ho mai pianto in tutti quegli anni, solo quando è  morto mio padre, che non l’ho potuto salutare e poi quando si è sposata mia figlia, è stata una giornata terribile: sapevo che mia figlia si stava sposando e io non potevo portarla all’altare.

 

C’era un detto italiano e americano, mia zia lo diceva sempre,  tutti i migranti dicevano  “salute e lontananza” come dire: salute e vai avanti. Tutti i migranti italiani dicono ‘sta cosa perché è così, non puoi scervellarti col pensiero, non puoi stare a pensare sempre sennò diventi matto.

 

Nel 2001 (quando) è morto mio padre ho ricominciato a telefonare, non me ne importava più, io telefonavo: non mi fregava più niente.

Nel 2007/2008 mi so’ detto “mo’ basta, voglio tornare”.

E in quegli anni è morta mia zia che era come una mamma americana, io la mamma non ce l’avevo più e lei era bella aperta come me. Mi so’ detto “mo basta e se mi succede qualcosa a me?” Il pensiero che mi ha fatto decidere di tornare è stato questo: è stata la famiglia, ovvio. Non ho mai sofferto troppo, ma io sono molto emotivo, e alle feste sentivo questa sensazione, come una malinconia. Era brutto e l’amico mio diceva “andiamo a Las Vegas” mi portava a Las Vegas. Andavo ogni due mesi e ci giocavamo un bel po’ di dollari.

 

In quegli anni la cosa più bella che mi ha portato avanti, che mi ha dato la forza, è stato il volontariato dentro le chiese il sabato e la domenica, era bello, ma devo dire la verità, sono loro ad aver dato una mano a me.

Andavo  e davo da mangia’ 250 “sanguìch” una busta così – fa cenno della misura con le mani – c’era o “sanguìch”, il latte, frutta, dolci … Noi andavamo a prendere (il cibo) nei supermercati, là non è come qua. Una settimana prima che scadessero levavano tutti i prodotti: noi li passavamo a prendere col furgone, li portavamo alla chiesa e li davamo ai poveri; stavano per scadere ma erano ancora buoni. La mattina andavamo lì e  li scaricavamo. Avevo fatto  amicizia con Vito, era un siciliano, vecchissimo, una persona stupenda e lui mi aiutava su tutto, lì tra migranti c’era la solidarietà, non è come qua, lì non c’era razzismo con gli italiani anzi, anzi.

 

Continua a parlare a raccontare aneddoti tutti diversi, riemergono nomi, facce, battute. 

 

Una volta ho conosciuto una donna che lavorava al mercato del pesce, mi fa “ue paisaa”, non mi voleva lasciare e mi ha portato a casa sua a mangiare.

Poi lì non è come qua, pure i poveri non li riconosci, sai? Una volta, non me lo posso mai scordare: c’era un direttore di banca a prendere la busta dei poveri. E pure i neri che mi prendevano in giro e mi dicevano “l’americano”, io rispondevo che ero italiano: era diventato un gioco tra di noi. È stata una bella esperienza: tutte le famiglie italiane che ti fanno il barbecue e ti chiamano, bello sempre. Sono stato ben accolto, quando sono andato via mi sono dispiaciuto perché mi hanno fatto sentire che mi volevano bene.

E poi c’è stato il ritorno…

 

CONTINUA

Lavoro in carcere

LIVIA

Per varie vicissitudini di vita e lavoro da lungo tempo non entravo in carcere.

Carcere che è stata presenza quotidiana in tutta la mia vita lavorativa.

Ora da un mese ho varcato nuovamente quelle soglia, dopo quasi 20 anni non mi fanno più effetto i cancelli che si chiudono, le chiavi, i rumori e i silenzi.

Ma non mi sono assuefatta alle persone, per fortuna direi.

Abbiamo organizzato un corso di formazione e prendervi parte ancora mi provoca emozioni e sensazioni. Guardo i partecipanti, uomini più o meno adulti e più o meno stanchi, i loro occhi, le loro mani, i sorrisi a volte timidi e altre sfrontati; ascolto le loro parole, i loro racconti, le loro domande e mi rendo conto di come sia un’esperienza formativa non solo per loro che partecipano come beneficiari ma anche per noi che ci troviamo dall’altra parte.

Sto conoscendo persone nuove e ne ho reincontrate di già conosciute in passato sempre all’interno di altri istituti penitenziari; a loro volta mi ricordano periodi, sensazioni, volti, episodi lontani nel tempo ma vividi nei ricordi.

L’impatto è più forte di quanto pensavo e capisco che lo scambio umano che questo lavoro mi offre ancora mi riempie il cuore e mi affolla la testa di riflessioni e pensieri.

Riesco ancora a guardare le persone prima del reato che hanno commesso, riesco ancora a sospendere il giudizio e a trovare il lato positivo. Riesco ancora a dare una parte di me e a mettermi io per prima in discussione.

Durante le mie prime settimane di lavoro nella cooperativa PID, nel lontano 2003, mi è capitato di partecipare ad un convegno sul Terzo Settore e di ascoltare le parole appassionate e calorose di Don Ciotti che con enfasi diceva che fino a che questo lavoro continua a far ridere, piangere, emozionare, indignare, arrabbiare ha un senso continuare a farlo.

Ecco, per me è ancora tempo di svolgerlo.