Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Reato universale – altri modi di dire alle donne come gestire il proprio corpo

Presupponendo qualche potere trascendentale sui corpi e sulle vite delle persone con utero, ecco che in Italia, la tanto attesa mano di ferro portatrice di ordine e sicurezza – schierata contro “l’ideologia gender” in nome di un caotico ginepraio che sarebbero “i valori de ‘na volta” – arriva a definire i termini per i quali la gestazione per altri sarebbe un reato universale.

Fa un po’ ridere il pensare le cose in termini universalistici quando, perfino in questo paese di conservatori, esiste una buona parte della popolazione che grida l’esigenza di uno sguardo intersezionale sulle cose del mondo.

NB. Guardare all’intersezionalità è una pratica promossa dai movimenti femministi e transfemministi che presuppone la consapevolezza della complessità della realtà, costruita su relazioni di potere e di subordinazione che producono le marginalità le quali hanno TUTTE necessità di essere considerate, ascoltate, viste, ecc. Questo, molto in breve, vi rimando alle parole di Sabrina Marchetti per una riflessione:

«Nel momento in cui ci accingiamo a parlare di “diversità”, siamo immediatamente obbligati a confrontarci col fatto che di “diversità”, ogni persona, rispetto alle altre e rispetto alla società nel suo complesso, non ne ha una sola.»

Fa un po’ meno ridere la pretesa dello stato di diritto di criminalizzare bambine, bambini, genitori e intere famiglie che hanno la loro quotidianità, esistono e continueranno a farlo nonostante il reato sia da mercoledì ufficiale. E per quelli che verranno?

Che poi c’è da ingegnarsi per capire quale problema rappresenterebbe per l’Italia se una persona mette a disposizione la propria capacità gestazionale per un’altra che non può ma vuole avere figli o figlie. Reato di cosa? Sarà forse che siamo spaventati dalla complessità del mondo? Notiziona, complesso lo è sempre stato il mondo.

«La frammentazione dei ruoli genitoriali accettati della paternità e della maternità (Parkin, 1997), che deriva dall’applicazione delle tecniche di riproduzione assistita, ha spinto in avanti la distinzione, ben nota nell’antropologia classica, tra genitore-genitrice e padre-madre sociali con la filiazione materna che può sdoppiarsi nelle sue due componenti costitutive, darsi separatamente come una maternità genetica oppure come una maternità gestante. Fino a cinque persone possono risultare coinvolte, nel caso in cui entrambi gli aspiranti genitori (genitori di intenzione) siano sostituiti nelle loro funzioni genetico-procreative da un donatore di spermatozoi, da una donatrice di ovuli e da una gestante incaricata di portare avanti la gravidanza, nella cosiddetta surrogacy gestazionale (gestational surrogacy).» – Antropologia delle famiglie contemporanee, Simonetta Grilli

Fa ancora più ridere l’ipocrisia insita nelle pratiche di governo dei corpi delle donne che le investe di un duplice fardello: da un lato macchine riproduttrici di lindi e pinti nuovi cittadini, dall’altra criminali che utilizzano le stesse funzioni biologiche richieste dalla società per essere considerate a tutti gli effetti delle “vere donne” per permettere ad altre vite di colorarsi con l’arrivo di nuove vite. Cioè detta molto semplicemente: le persone che vogliono figli ma non possono averli (per le motivazioni più disparate) continuano a non poterli avere MA le persone che non vogliono figli ma restano incinte (per le motivazioni più disparate) non possono interrompere la gravidanza. È caotico? Non ha molto senso? Sì, ma a quanto pare è così. E buona pace alla libertà di autodeterminarsi in un paese libero.

Oltre la solita polemica, cosa s’intende per reato universale?

Mercoledì 16 ottobre la proposta di legge FDI viene approvata. Ebbene la gestazione per altri, chiamata spesso e impropriamente “utero in affitto”, diventa reato universale: ergo, sarà perseguibile in Italia chi farà ricorso alla GPA anche se all’estero.

«Anche se ci sono forti dubbi sulla sua applicabilità, secondo diversi giuristi la legge avrà comunque ricadute concrete sulla vita delle persone che vorranno far ricorso alla GPA: potrebbero andare infatti incontro a un processo, accusati di un reato che comporta il carcere o una multa elevata.» – Il Post

È davvero frustrante dover leggere queste cose, pensarle reali, dover ribadire ancora una volta la libertà personale di scegliere come condurre la propria vita. Perché di questo parliamo, di vita.

Una vita donata diventa reato. 

Vissuti di dentro: racconti di incontri, legami e domandine

Lo scorso febbraio, in seguito a un commento ricevuto sotto un nostro post, un ex detenuto e utente della cooperativa ha deciso di condividere con noi la sua voce che oggi raccontiamo qui. Domenico è uscito definitivamente dal carcere nel 2022, un passato non molto lontano, ma è oggi libero e sereno perché “ha pagato tutto” e “non ha più nulla da nascondere”. La nostra chiacchierata inizia più o meno così: 

A. «Posso registrare?»

D. «Sì va bene tanto io non ho niente da nascondere, non ho più niente da nascondere. ‘Na volta sì adesso no».

LE PAROLE DI DOMENICO

Io ho conosciuto il PID nel 2005 dopo l’ennesima domandina che ho fatto, perché ne ho fatte svariate per poter parlare con un’operatrice del PID, eh!

Nel 2008 sono uscito e mi sono affidato al PID perchè io tutte le volte che sono uscito prima me ritrovavo sempre in mezzo alla strada e dovevo sempre fa’ reati, come me tanti altri detenuti che non hanno nessuno, nessun riferimento, nessuna opportunità diciamo. 

E il PID mi ha aiutato. Mi ha inserito nelle borse lavoro e mi sono trovato bene, non ho fatto più reati. E non mi hanno mai abbandonato, neanche in queste altre occasioni perché lo sapevano che io ormai ero uscito da tutto il contesto di delinquenza. 

Poi ho avuto altre carcerazioni, nel 2015 e nel 2019 ma erano tutte cose vecchie, prima del 2005 che sono andate definitive perché come si sa i processi vanno per le lunghe. 

 

A.«La famosa giustizia lenta?»

D. «Ma non direi lenta, lentissima».

Mi sono affidato a loro e sono riuscito adesso nel 2022. Grazie al PID però, perché mi ha dato una grande mano facendomi conoscere un’avvocatessa seria e mi ha salvato perché sennò il mio fine pena era il 2034.

Un lungo percorso “dentro” 

Ho cominciato con Porta Portese da minorenne e l’ho chiusa diciamo nel ‘67/’68. L’ex carcere minorile sarebbe. Poi sono andato a Regina Coeli, Rebibbia, San Vittore. Perché andavo pure fuori a lavorà, tra parentesi. San Vittore, Livorno, Firenze (sempre da minorenne) in Via della Scala; Chieti, dopo la rivolta del ‘74 a Rebibbia. Perché stavo là io quando c’è stato tutto il casino e abbiamo distrutto tutto quanto.

A. «Hai partecipato alle rivolte?»

D. «Si, ho fatto un casino lì. Ancora ero un ragazzo che la testa non c’era».

Entravo, uscivo, entravo, uscivo. Mi ritenevo l’omo più bevuto d’Italia

Che poi quando uscivo mi ritrovavo un’altra volta per strada… Dovevo campare, dovevo mangiare. Non avevo famiglia, non avevo niente.

Le domandine in carcere

In carcere devi fare domandina per tutto, per tutto ci vuole la domandina: per poter parlare con l’assistente sociale, per poter parlare con la psicologa, per poter parlare con il direttore, con il “capo posto” (il capo del reparto). 

Per fare entrare dentro un paio di scarpe nuove ad esempio, perché le vecchie sono rotte, devi darle prima indietro (le vecchie) altrimenti non entrano (le nuove). 

 

E certe domandine si perdono, diciamo si perdono… Tante le cestinano e invece tante si perdono. La domandina è tutto, senza domandina in carcere non ci fai niente.

Molte però, forse la maggior parte vengono perse. Io per poter parlare col PID ho fatto innumerevoli domandine. Finalmente poi mi hanno chiamato “Domenico? Devi anna’ a parla’ col PID”. “Oddio che sta a succede!”

Gli affetti da dentro e le feste in carcere

Allora uno che fa quando non trova un aiuto e si ritrova per strada?

Questo è quello che dicevo io… 

 

E lì ho passato svariati Natali, Natali brutti. Natali dove ho visto tanta gente, “criminali per davvero”, che in quei giorni la soffrivano veramente la galera. La soffrivano proprio perchè la gente diceva “sì, so criminali e tutto quanto” ma dentro c’hanno sempre ‘ncore. Hanno i figli, le famiglie, le madri, i padri che hanno lasciato fuori.E per quanto delinquenti senti che ti mancano quando arrivano questi giorni particolari. 

Sono gli affetti che mancano, mancano.

Io ce ne avevo pochi di affetti in quei periodi. Dopo ce ne ho avuti tanti, nel 2005 i miei due figli. Nel 2019 mio figlio era in clinica, ricoverato che ora sta male e lo seguo io, viviamo insieme perché da solo non può stare. Stiamo io e lui, lo aiuto con le terapie e quello che deve fare. Stiamo tranquilli.

A. «Quindi hai trovato la tua serenità in qualche modo?»

D. «Sisi, adesso sì. E cerco di dargliela pure a lui».

Torneremo a Domenico e alla storia, ai suoi preziosi racconti e alle sue parole desiderose di una giustizia che non dimentichi nessuno.

Carcere e omofobia

Carcere e omofobia, maternità surrogata e tutte le ipocrisie (o solo alcune) del mondo contemporaneo. Le tematiche che attraversano ogni giorno le strade e le case del globo incontrano e travolgono la società nascosta, la parte che si dimentica, a cui non si pensa.
L, come un lucido osservatore delle realtà socio-culturali che attraversano la quotidianità, ci racconta un carcere non molto lontano dalle nostre città. Non molto distante dalle idee e dalle narrazioni in cui si impigliano quei tanti modi di essere umani tra umani. E così, anche oggi, L ci dice la sua mettendo nero su bianco le sue riflessioni e consegnandole allo spazio di condivisione del blog.

“E si farà l’amore ognuno come gli va”

Lucio Dalla

LE PAROLE DI L

Non ho altre parole e non voglio trovarne. So che attirerò gli strali di alcuni detenuti (non la maggioranza per fortuna) ma è giusto dover dire che una certa “fascinazione” per l’ uomo forte gerarchicamente posizionato è molto presente in carcere e quindi soltanto sollevare certe questioni, tra queste quella dell’omofobia, è come cercare di abbattere “muri mentali” assolutamente difficili da rimuovere. Parliamo di pregiudizi e stereotipi costruiti nel tempo, a cominciare dai disgustosi commenti sul “cromatismo della pelle”, ma di questo parleremo un’altra volta. Si fatica a capire fuori di qui e “qui dentro” che a dover prevalere è la libera scelta delle persone. È questo il vero discrimine etico. Invece con giudizi talora spregevoli finiamo per rinchiudere in cella non soltanto i nostri corpi, ma la nostra mente e le nostre parole. 

“Le parole sono importanti” direbbe Nanni Moretti, invece sono anch’esse prigioniere entro categorie. Non capiamo che ci sono coppie omogenitoriali che vivono con bambini felicissimi e ignoriamo l’esistenza molto diffusa delle cosiddette “famiglie atipiche” in cui le relazioni contano più dei ruoli tradizionali. A prevalere in questi casi è la genitorialità. Si può essere madri o padri anche con figli concepiti da altri perché i figli sono anche di chi li cresce e non sempre di chi li concepisce. Basta con certi precetti morali! Per screditare le famiglie omogenitoriali si usa anche in modo strumentale la questione della maternità surrogata,  enfatizzata e volgarizzata come “utero in affitto” omettendo di dire che nel novanta per cento dei casi questa pratica riguarda famiglie eterosessuali

 

Il mantra “Dio Patria e Famiglia” è in crisi. Le nuove generazioni lo sanno. A non capirlo sono i moralisti d’accatto che si ergono a difensori della famiglia tradizionale patriarcale e finiscono poi nella loro vita privata a vivere di tradimenti, di bugie e di ipocrisie quando va bene e, quando va male, si voltano dall’altra parte se tradimenti e bugie finiscono in tragedie in cui a pagare con la vita sono le donne.

Orso M49 

Natale in carcere

E se il Natale lo avessimo passato in carcere?
Sono trascorse anche quest’anno le festività natalizie, le abbuffate, gli incontri annuali dei parenti di cui tanto spesso, noi di fuori, ci lamentiamo e che quasi non riusciamo a sostenere. Ci avete mai pensato, come sarebbe dentro? Il Natale in carcere, lo racconta brevemente L: le sensazioni e i pensieri nei giorni precedenti le “feste”.
LE PAROLE DI L

Si avvicinano Natale e il Nuovo Anno. In carcere non esiste solo il sovraffollamento quello “classico”, 51.000 posti in carcere e 61.000 detenuti effettivi al momento (ma questa criticità è destinata ad aumentare). 

C’ è un altro “sovraffollamento”, quello dei pensieri nella nostra testa, “l’over thinking”. E già, in prossimità delle feste natalizie e di fine anno si pensa a tutto e di tutto, si sovrappongono annoto pensieri negativi e positivi, qualche volta ossessioni sulle nostre compagne di vita fuori, su parenti, amici veri o presunti che non vediamo più, conoscenti, avvocati (se poi questo professionista è un difensore d’ ufficio, “peggio mi sento”, perché non è escluso possa essere “prono ai desiderata” della pubblica accusa). 

Ci consoliamo durante le feste pensando che rispetto ai nostri errori e reati non abbiamo avuto scelta. 

Ma evitiamo narrazioni “tossiche” e limitiamoci a dire che Natale e Capodanno sono molto distanti dalle nostre vite precedenti, quelle degli anni vissuti in libertà per intenderci.

Senza la vicinanza dei nostri cari, mogli, figli, sorelle, fratelli; senza gli umori, i sorrisi e gli sguardi di chi ci vuole bene; senza gli odori di un pranzo fatto in casa e i colori delle pareti di quella casa. Condividiamo un panettone nel chiuso di una cella a 6 (che dovrebbe essere a 3) con persone che non abbiamo scelto, scriviamo una mail di auguri, poi stracciamo il foglio e la riscriviamo sperando sia migliore della prima

 

C’è poi chi dopo aver “promosso” insieme ai suoi “sodali” il “nuovo pacchetto sicurezza” si sgrava la coscienza con la solita “passerella” a teatro in carcere. Si fosse fermato a Ciampino non ne avremmo sentito la mancanza. No, è sceso a Rebibbia. 

 

Natale in carcere: “Vivere e sorridere dei guai”, direbbe Vasco. 

Orso M49 

 

La storia di Giacomo – l’America

Mi è venuto a prendere mio fratello all’aeroporto, mi ha fatto aspettare 3 ore seduto, le ore più brutte. Non lo vedevo da 5- 6 anni, ma non è quello: è stato uno dei momenti più brutti perché l’ho aspettato da solo con i bagagli in mezzo alla strada, non parlavo la lingua, lì da solo sembrava che il tempo non passasse mai. Poi mi ha preso e mi ha portato a casa.

E quando  ho visto Los Angeles… madonna mia!

 

CONTINUA

 

Tra il 2009 e il 2019 Laura raccoglie la testimonianza di Giacomo. Giacomo, un ex detenuto ed ex utente del PID racconta la sua storia, condivide il suo percorso: dalla scelta di delinquere al carcere, alla misura alternativa. Abbiamo deciso di ripescare le sue parole e consegnarle allo spazio del blog un po’ alla volta. Così da darci il tempo di riflettere sulle esperienze vissute dal protagonista e tentare di ascoltarlo, comprenderlo e accoglierlo; evitando di cadere nella banalità di definire cos’è buono e cos’è cattivo senza considerare la complessità degli eventi che percorrono il quotidiano di un uomo. 

[…] che se prima di ogni nostro atto ci mettessimo a prevederne tutte le conseguenze, a considerarle seriamente, anzitutto quelle immediate, poi le probabili, poi le possibili, poi le immaginabili, non arriveremmo neanche a muoverci dal punto in cui ci avrebbe fatto fermare il primo pensiero.

José Saramago – “Cecità”

Sono stato un paio di mesi da mio fratello, e un giorno ho trovato un lavoretto di pulizie e sono andato. Ho conosciuto un uomo messicano e siamo diventati amici. Siamo ancora amici, mi ha dato una mano con tutto: i documenti, il lavoro, tutto.

Il nome non te lo posso dire – dice sorridendo – mi ha aiutato a comprare la green card.

Ho fatto amicizia e ho cominciato ad ambientarmi, a conoscere persone. C’era una famiglia italiana da cui andavo sempre a pranzo e a cena la domenica. Poi, piano piano ho fatto tutto. Non ho avuto problemi con la lingua, perché parlavano tutti spagnolo chiaro, “limpido”. Proprio tutti: argentini, messicani, parlavano tutti spagnolo. Certo un po’ di inglese sì, ma poco.

 

Sono stato dal 90 fino al 2007/2008 e poi sono tornato e mi sono consegnato che l’avvocato mi aveva detto che dovevo fare sette anni.

Sono mancato da casa 18 anni.

Se il dolore per la lontananza è stato duro da affrontare? 

 

Giacomo mi guarda prima di rispondere e capisco che si è dovuto inventare un modo per andare avanti, per sopportare.

 

Eh, non ci pensavo perché a casa non potevo telefonare: non sapevo a cosa andavo incontro. Non potevo mandare assegni, ogni tanto venivano loro, ma io non potevo perché  mi cercavano sia il gruppo che la polizia. Ogni tanto andavano da mia moglie, entrambi: le chiedevano, ma lei diceva che ci eravamo lasciati. L’avvocato mi aveva detto di non mandare niente e di non fare niente. E io che facevo? Non ci pensavo.

Ogni tanto una telefonata ma è terribile, è terribile. Sapevo le notizie tramite mia zia che stava lì in California: lei li chiamava e chiedeva notizie per me. E invece è stata una ca**ata perché non sapevano niente in Italia, infatti quando mi sono consegnato ho detto, “che st*o*zo”. Non sapevano niente.

 

Non li ho mai potuti far venire lì perché mia moglie non voleva, voleva  stare vicino alle figlie che stavano diventando grandi. Venivano uno, due mesi: una volta s’è stata tre mesi con la figlia piccola, che bello.

Ho sofferto, sì che ho sofferto.

Per esempio, quando è morto mio padre … Non ho mai pianto in tutti quegli anni, solo quando è  morto mio padre, che non l’ho potuto salutare e poi quando si è sposata mia figlia, è stata una giornata terribile: sapevo che mia figlia si stava sposando e io non potevo portarla all’altare.

 

C’era un detto italiano e americano, mia zia lo diceva sempre,  tutti i migranti dicevano  “salute e lontananza” come dire: salute e vai avanti. Tutti i migranti italiani dicono ‘sta cosa perché è così, non puoi scervellarti col pensiero, non puoi stare a pensare sempre sennò diventi matto.

 

Nel 2001 (quando) è morto mio padre ho ricominciato a telefonare, non me ne importava più, io telefonavo: non mi fregava più niente.

Nel 2007/2008 mi so’ detto “mo’ basta, voglio tornare”.

E in quegli anni è morta mia zia che era come una mamma americana, io la mamma non ce l’avevo più e lei era bella aperta come me. Mi so’ detto “mo basta e se mi succede qualcosa a me?” Il pensiero che mi ha fatto decidere di tornare è stato questo: è stata la famiglia, ovvio. Non ho mai sofferto troppo, ma io sono molto emotivo, e alle feste sentivo questa sensazione, come una malinconia. Era brutto e l’amico mio diceva “andiamo a Las Vegas” mi portava a Las Vegas. Andavo ogni due mesi e ci giocavamo un bel po’ di dollari.

 

In quegli anni la cosa più bella che mi ha portato avanti, che mi ha dato la forza, è stato il volontariato dentro le chiese il sabato e la domenica, era bello, ma devo dire la verità, sono loro ad aver dato una mano a me.

Andavo  e davo da mangia’ 250 “sanguìch” una busta così – fa cenno della misura con le mani – c’era o “sanguìch”, il latte, frutta, dolci … Noi andavamo a prendere (il cibo) nei supermercati, là non è come qua. Una settimana prima che scadessero levavano tutti i prodotti: noi li passavamo a prendere col furgone, li portavamo alla chiesa e li davamo ai poveri; stavano per scadere ma erano ancora buoni. La mattina andavamo lì e  li scaricavamo. Avevo fatto  amicizia con Vito, era un siciliano, vecchissimo, una persona stupenda e lui mi aiutava su tutto, lì tra migranti c’era la solidarietà, non è come qua, lì non c’era razzismo con gli italiani anzi, anzi.

 

Continua a parlare a raccontare aneddoti tutti diversi, riemergono nomi, facce, battute. 

 

Una volta ho conosciuto una donna che lavorava al mercato del pesce, mi fa “ue paisaa”, non mi voleva lasciare e mi ha portato a casa sua a mangiare.

Poi lì non è come qua, pure i poveri non li riconosci, sai? Una volta, non me lo posso mai scordare: c’era un direttore di banca a prendere la busta dei poveri. E pure i neri che mi prendevano in giro e mi dicevano “l’americano”, io rispondevo che ero italiano: era diventato un gioco tra di noi. È stata una bella esperienza: tutte le famiglie italiane che ti fanno il barbecue e ti chiamano, bello sempre. Sono stato ben accolto, quando sono andato via mi sono dispiaciuto perché mi hanno fatto sentire che mi volevano bene.

E poi c’è stato il ritorno…

 

CONTINUA

Il detenuto “adultolescente”

Il detenuto, la sessualità e l’affettività in carcere. L ci scrive:

LE PAROLE DI L 

 

I carcerati sono ridotti alla stregua di adolescenti ma che dico ADULTOLESCENTI per dirla con un neologismo. Il vero danno non è “l’astinenza”, quanto la frantumazione della vita di coppia. Nessun luogo è lontano, neanche il carcere in una società. 

Eppure il legame affettivo è eroso dal carcere e con esso la sessualità, riconosciuta invece in altri Paesi europei.Quando se ne parla assistiamo sempre ad un vergognoso “girotondo” di pregiudizi, si crea attorno a questo “diritto negato” un ” humus ” favorevole a chi con pulsioni irrefrenabili, con un florilegio di insulti e con toni sbracati urla “chiedendo di buttare via Ia chiave”.

Tutto questo semplicemente per raccogliere uno squallido dividendo elettorale.

 

La sessualità è una componente essenziale in un rapporto di coppia, corrobora la relazione coniugale, ne scongiura il logoramento a vantaggio anche degli altri componenti di una famiglia

Con la negazione di questo diritto capisci che il tuo tempo, il tuo vissuto, la tua storia di coppia possono dissolversi. 

Ti accorgi, con Io sguardo perso nel vuoto/che c’era un “prima” ma che forse non ci sarà un “dopo”. Si finisce con il dissipare un legame o quantomeno si rischia di ridurlo ad un guscio vuoto. C’è una regressione “adolescenziale” del detenuto che si rassegna alla “piattezza” della vita quotidiana dietro le sbarre. 

 

Aspettiamo la Consulta, “Nessuna notte è infinita” direbbe Renato Zero.

 

ORSO M49

Il mio percorso in carcere

Partendo da un discorso generale sul rapporto di G con il mondo carcerario per intero, nasce un approfondimento sulla sua esperienza personale che vuole stimolare una riflessione sul valore che ha l’atteggiamento pregiudiziale nei confronti dei detenuti e delle detenute, in relazione all’inclusione sociale degli stessi. 

LE PAROLE DI G

Articolo 1 – Ordinamento Penitenziario

“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”

Il tempo per trasferire lo stipendio

G è in semilibertà, ha un lavoro e percepisce lo stipendio come ogni persona che svolge attività lavorativa. Come riceve il denaro un detenuto che lavora? Una cosa poco nota è che ogni detenuto ha diritto ad avere un conto all’interno dello stesso Istituto Penitenziario: per chi è assunto da terzi – pubblici o privati –  l’iter prevede che il pagamento dello stipendio passi per l’Istituto, il quale si occupa di girare successivamente il bonifico sul conto personale del detenuto. 

È possibile che lo stipendio arriva l’8 del mese all’Istituto e a me viene girato il 24? È possibile che mia moglie con la mia famiglia non ricevono soldi in tutto questo tempo? 

Io capisco che è l’iter ma qui si tratta di un bisogno vero, quanto ci vuole per girare la mensilità? Più di venti giorni? E poi il problema è che se provi a chiamare, con tutta la calma e il rispetto possibile loro ti rispondono pure male. Ti trattano come se li scocciassi, come se a me fa piacere stare attaccato al telefono per ricevere quello che è mio e mi guadagno

Loro aspettano che tu sbrocchi e parti con il cervello, questa è la sensazione che ti danno: aspettano per farti rapporto e rispedirti in carcere. Non voglio generalizzare troppo, perché non tutti sono così, non tutti abusano così della loro posizione, fortunatamente. I tempi sono lunghi per tutto, mica solo per ricevere lo stipendio, anche se questo mi preme di più perchè chiaramente va a discapito della mia famiglia. 

Il tempo per ottenere l’affidamento

Il 31 dicembre sono rientrato in carcere e per questo avevo fatto richiesta di Affidamento in prova ai servizi sociali prima (Capo VI dell’Ordinamento Penitenziario – Misure alternative alla detenzione e remissione del debito – Art. 47).

In questo modo dalla struttura in cui ero da circa due anni e mezzo, non sarei più tornato in carcere e avrei potuto finire gli ultimi anni di pena fuori, magari anche a casa con la mia famiglia. Avere la possibilità di non tornare più dentro rappresentava una gioia grande, il fatto che ci sono tornato psicologicamente mi uccide.

Il problema qual è? Anche qui c’è stato bisogno di un tempo infinito per avere una risposta e tanti, tantissimi solleciti al Tribunale di Sorveglianza. Di fatto si tratta di una firma, nel mio caso, perchè i requisiti per ottenere la misura ce li ho tutti però sembra che non ci sia nessuno dall’altra parte a metterla questa firma o anche a non metterla

Ad oggi ho una data per l’udienza, a maggio, dopo lunghi mesi di attesa.

Instaurare una relazione con i detenuti 

Quando si parla con una persona, soprattutto in vista di una rieducazione, devi essere gentile, paziente; non aggressivo. È normale che non deve essere così, perché immaginate di avere un cane chiuso in una gabbia – forse l’esempio è un po’ brutto però è così – se lo trattate male questo cane, non lo accarezzate, gli urlate e non gli date da mangiare, quando esce vi abbaia, vi morde: lo stesso succede per il detenuto.

Le persone che lavorano in carcere non trovano il tempo per ascoltarti, non vogliono o non possono: noi abbiamo mancanza di affetto e nessuno ci fa sentire ascoltati.

Quando è morto mio padre, ero nella mia cella e stavo nervoso, arrabbiato, frustrato. 

Stavo combinando un bel casino, però è arrivato un agente molto buono: una persona veramente umana che mi ha parlato, riferendosi a me per nome invece che con il mio cognome. Mi ha mostrato comprensione per il momento difficile che stavo affrontando e mi ha dato modo di ragionare sul comportamento che stavo avendo, che andava solo a mio discapito. Stavo sempre chiuso, non è che abbia fatto qualcosa di particolare: semplicemente una parola mi ha calmato e mi ha dato quello di cui avevo bisogno – calore ed affetto, infatti poi mi ricordo che sono crollato a dormire. 

In carcere le persone vivono per una lettera

Una lettera, un foglio di carta: la gente vive solo per quello in carcere, lo sapete? 

Fuori non si dà troppa importanza a certe cose.

Quando passa l’addetto alla posta a consegnare le lettere, le persone cambiano umore: dacché stanno tutti a muso lungo, a braccia conserte nelle celle a che si aprono dalla gioia, alla scoperta di cose nuove.

Quando io ricevevo la lettera, ad esempio di mia moglie, sapete che facevo?

Mi organizzavo come se fosse l’impegno più importante della giornata – il che era così effettivamente – mi preparavo la postazione e iniziavo a leggere molto molto lentamente: non volevo che finisse.  Finivo di leggere, la posavo. Dopo un’ora ricominciavo a leggerla. 

Abbiamo sbagliato e io ne sono consapevole, è giusto che paghiamo ma con dignità e umanità. 

Noi per l’opinione pubblica siamo lo scarto degli scarti.

Ma le statistiche parlano chiaro, le persone detenute che hanno avuto l’opportunità di lavorare non hanno più commesso reati. Quindi di che parliamo?

In questo modo tu vai a diminuire la delinquenza e a ricostruire una società diversa, migliore.

Gli educatori in carcere ci sono? 

Dove stavo io c’è solo un’educatrice per un carcere intero! Una sola che deve gestire tantissimi detenuti e molti anche con problematiche serie, come la tossicodipendenza. Come fa? 

Un giorno parlando, e le chiesi: “Dottorè ma come fa adesso con tutte queste persone? Le hanno lasciato un bel carico di lavoro!”. Lei mi rispose: “Dove arrivo metto il punto!”.

E chi paga per questo? I detenuti.

Giustamente lei non può fare altrimenti, quindi il problema è a monte: c’è bisogno di più educatori ed educatrici!

L’importanza del sostegno familiare in Carcere: la mia esperienza

La mia famiglia è molto numerosa, se guardiamo in grande. Io con mia moglie però abbiamo tre figli, di cui l’ultima che ha 20 anni è nata mentre io ero già in Carcere, per cui non l’ho vista crescere come avrei voluto. Ringraziando Dio mia moglie mi è sempre stata vicino e mi ha seguito passo dopo passo: ha mantenuto viva la mia presenza all’interno della famiglia.

Quello che mi ha portato avanti 20 anni in Carcere è stata proprio la mia famiglia, la forza più grande. Senza famiglia in carcere sei finito: penso a tutte quelle persone che si tolgono la vita, perché si sentono soli e abbandonati. Invece quando hai una famiglia che ti sostiene, fai i colloqui e ti carichi. 

Hai una speranza. 

  1. I colloqui familiari in Carcere;
  2. Quando esco vado subito dalla mia famiglia;
  3. La mia nuova vita.

I colloqui familiari in Carcere

Ogni 15 giorni avevo diritto a un colloquio. Quindi due volte al mese: uno lo facevo con mia moglie e mia figlia, l’altro con mia sorella. Anche la mia famiglia di appartenenza è stata fondamentale durante il mio percorso. Nonostante loro non siano mai stati d’accordo con le mie scelte di vita, mi hanno sempre seguito e mi sono sempre stati vicino in tutto.

All’inizio ho preso molti rapporti, non avevo accettato la mia condanna e quindi litigavo con tutti, soprattutto con gli agenti di Polizia Penitenziaria: il periodo più lungo che ho passato senza vedere la mia famiglia è stato di tre mesi. 

Sono stato tre mesi in isolamento in un Carcere in Sicilia, da dove volevo andare via, farmi spostare, proprio perchè troppo lontano da casa e mia moglie per venirmi a trovare si stancava tanto. Ho fatto  lo sciopero della fame per 15 giorni, perdendo 20 kg in un mese ma non ho ottenuto niente e per questo ho fatto un po’ di casino, così mi hanno chiuso in isolamento – dove sei solo tu e le pareti lisce

Piano piano mi sono fatto una ragione e ho iniziato a migliorare il mio comportamento, ottenendo anche il trasferimento. Ho girato un po’ di carceri: dalla Sicilia a Secondigliano, Napoli, Viterbo, Roma … 

Quando esco vado subito dalla mia famiglia

La mia condanna è di 29 anni e in pratica io la sto scontando tutta. Ora che sto sotto i 4 anni (cioè che mi mancano solo 4 anni alla fine della pena) posso fare richiesta per l’affidamento in prova ai servizi sociali.

Una volta ottenuta quella, si spera, cercherò di spostare l’affidamento da qui a casa mia: così potrò vedere mia nipote! Mia figlia più grande ha partorito ma non mi hanno dato permessi per andarla a trovare.

Gli equilibri dentro casa dovranno trovare nuovi incastri, è chiaro, una volta che potrò tornare. Non so immaginare come sarà, perché ovviamente sarà diverso rispetto a ora che magari mi vengono a trovare per massimo due, tre giorni. Allo stesso tempo dovremo tutti fare i conti con i cambiamenti che si sono vissuti in questi anni di lontananza. In primis io, sono cambiato molto. Soprattutto per quanto riguarda il rapporto con i soldi: rispetto a prima sono molto più serio e gestisco meglio i miei soldi, senza andare a spenderli per cose futili. 

La mia nuova vita

Se potessi tornare indietro non rifarei quello che ho fatto ma una cosa è sicura, andrei a lavorare. Questo perché fondamentalmente, il percorso delinquenziale che ho scelto io da giovane di intraprendere può portare solo a due cose: una vita in carcere o la morte

Questo è quello che penso io, sicuramente anche per la mia specifica esperienza. 

Ad oggi io preferisco lavorare e sarei pronto a farlo fino al giorno della mia morte. Lavorare mi dà tanta soddisfazione, mi piace per questo: perché sono orgoglioso di quello che faccio, non sono fiero per niente di quello che ero. Se ci ripenso, mi ricordo di una volta che mio fratello era venuto a casa mia per aiutarmi con un signore che lavorava al comune per offrirmi un lavoro. Io ero totalmente fuori di testa, ora mi taglierei una mano per quel lavoro, mentre al tempo li ho cacciati di casa.

Tutte le sere mi ripeto in testa le parole di mio padre quando gli dissi che io “volevo fare il boss” e lui mi rispose: il vero boss è quello che alle 6 la mattina si alza, si mette la colazione sotto braccio e va a lavorare.

Dentro di me pensavo fosse uno scemo, oggi invece dico parole sante! – la galera mi ha cambiato tanto.

La mia famiglia mi ha sempre insegnato cose diverse dal percorso che poi ho scelto: me se ‘mbriacato o cervello. Così in carcere, piano piano, ho iniziato a prendermi la responsabilità delle mie azioni, parlando con me stesso ho capito tutto e ho iniziato a fare quello che potevo per mantenermi attivo. Ho lavorato dentro il carcere: pulivo i pavimenti, i gabinetti; ho partecipato a tutti i corsi che c’erano, da quello di fumetti a quello di pasticceria.

Quando dai un lavoro o un’attività a un detenuto, lo salvi.  

Questo però non l’ho capito subito, anzi. 

Il primo periodo di carcere l’ho vissuto quando avevo quattordici anni e no, non sono “uscito migliore”. Sono entrato in un meccanismo particolare che mi faceva alzare l’asticella sempre un po’ di più: mi sentivo superiore agli altri, a tutti quanti. Pensavo di poter far tutti fessi facilmente e per questo commettevo crimini anche in modi così assurdi che ad oggi non saprei neanche spiegare come facevo. Una volta appena uscito, per tornare a casa, ho rubato una macchina: appena fuori dal cancello del carcere.

Sono stato arrestato 36 volte! 

Non sono fiero per niente di quello che ho fatto ma sono tanto fiero di quello che sono oggi. 

LE PAROLE DI G