ALESSIA
Come “100 cani su una gatta” si sono descritti gli autori della recente violenza consumata sul corpo di una giovane donna. Mi crea sempre un po’ di disagio il parlare o commentare l’atto dello stupro. È quasi una risposta immediata del mio corpo che in quanto corpo di donna, sente il ghiaccio del terrore paralizzarlo.
Se ci penso, quasi a conferma di questo immediato sentire, ci sono le parole di chi tra e con le persone pregiudicate ci lavora da anni e che con il corpo di donna ci fa i conti quotidianamente: la difficoltà a interagire con i “sex offenders” è qualcosa che accomuna diversi discorsi delle educatrici della cooperativa PID e non.
Poi sembra che fatico nel sentirmi in diritto di cercare le parole per descrivere la brutalità di un gesto che viene commentato a destra e a manca senza criterio. Spesso ci si dimentica del necessario e doveroso pudore che dovrebbe accompagnare qualsiasi tipo di atteggiamento nei confronti della persona abusata, la quale di certo merita più rispetto di quello che già le è stato negato.
Potrei aver voluto scrivere questo disclaimer per contestualizzare la prospettiva, in punta di piedi, che assume la mia penna in questo articolo.
Il punto è che di fronte a un mondo in cui la cultura dello stupro è radicata nei più piccoli interstizi delle attività giornaliere e dei pensieri più comuni, un mondo in cui ogni giorno i giornali, i social network e le televisioni si riempiono di immagini, registrazioni e parole che tolgono il fiato, diventa impossibile tacere. La violenza di genere fa parte della nostra cultura patriarcale, la cultura dello stupro si gioca sulla distorta concezione della donna e la repressione della sessualità libera che nega l’importanza del consenso, minimizza e naturalizza l’atto dell’abuso sessuale del maschile sul femminile in quanto, quest’ultimo è il rappresentante di un ruolo ben costruito. Non so a voi, ma a me è capitato spesso di ascoltare frasi come “però ci sono alcune ragazze che se la cercano”. Una persona in particolare, un semplice e “normalissimo padre di famiglia” ha detto (di fronte alla figlia adolescente) che capisce quando, purtroppo, si è in giro o in discoteca e una ragazza viene stuprata: nel senso che quando succede così è molto brutto, quando succede invece mentre una ragazza è a un party “con gli amici che si drogano” allora non può lamentarsi più di tanto perchè insomma, non ci prendiamo in giro “sai a quello che vai incontro”.
Riporre la responsabilità della violenza sessuale subita nelle mani della vittima è cultura dello stupro, è ancora normalizzazione dell’atto di prevaricazione su quella parte della popolazione che viene definita “sesso debole”.
Ho sentito anche frasi come “eh ma ultimamente se ne sentono davvero tante” e ogni volta rispondo che magari ultimamente abbiamo la possibilità di denunciare con una speranza maggiore di essere credute, anche se con immensa amarezza mi trovo a constatare che non è poi tanto vero. Forse non c’è più la stessa vergogna che accompagna la donna violata senza il proprio consenso, o forse persiste pure la vergogna ma c’è chi cerca di combatterla con la ragione.
La verità è che di tutte le persone che ho conosciuto in soli 23 anni, molte tra le donne portano con sé una storia di violenza: molestie, abusi emotivi e psicologici, schiaffi, pugni, penetrazioni non richieste. E molte donne decidono di portare il peso di questo dolore senza esprimerlo, perché possono vedere chiaramente intorno a loro il rischio di essere considerate solo un altro caso, solo un’altra vittima della cultura dello stupro.
E sinceramente non le biasimo, le rispetto profondamente e taccio di fronte al loro sguardo.
Allo squallore delle conversazioni dei “100 cani” reso pubblico di recente, si somma un altro tipo di squallore, più pudico e meno palesemente complice della cultura dello stupro, ma potremmo dire forse il più centrale: la negazione della violenza di genere come frutto della mentalità patriarcale e dell’inesistenza di un educazione sessuale e al consenso. La negazione arriva prepotente nell’invocazione, ad esempio, della castrazione chimica; pena che oltre ad essere incostituzionale – dall’Art. 32 «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.» – non sarebbe utile.
Il discorso è sempre lo stesso, “come può uno scoglio arginare il mare?”.
Com’è possibile non pensare che il problema vada estirpato alla radice, piuttosto che reagire alla violenza con altra violenza? Quello che forse dovremmo piuttosto invocare è la necessità di cambiare in profondità le regole sottostanti le figure del femminile e del maschile. Abbiamo l’obbligo di guardarci allo specchio, come società e rete culturale che produce il femminicidio e la violenza di genere in tutta la brutalità del suo marasma e di accettare le nostre responsabilità, chiedendoci magari come potremmo riuscire a garantire a una donna la possibilità di camminare per la strada senza il timore di essere stuprata.