Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Alla ricerca del tempo perduto

Osservazioni sulle riforme dell’Ordinamento Penitenziario in Italia

MULLI – 12 agosto 2024

Sono passati esattamente ad oggi undici anni dalla costituzione con DM 2 luglio 2013 della Commissione Giostra, dal nome del suo Presidente docente di Diritto Processuale Penale alla Sapienza di Roma, meglio denominata “Commissione di studio per elaborare una proposta di interventi in tema di ordinamento penitenziario e in particolare di misure alternative alla detenzione”.

Gli atti della Commissione sono rimasti lettera morta, e le sue numerose pagine, possono essere tuttalpiù utilizzate per “incartar sardelle” rubando il termine a Giannone in relazione alle leggi e alla interpretazioni di Giudici e Avvocati del Regno di Napoli rimaste inascoltate, meglio inapplicate.

L’unica riforma, quella riconducibile a Guardasigilli Orlando del Governo Renzi del 2018, volta a modificare il nostro sistema carcerario restò lettera morta e il progetto di legge fu affossato dagli esecutivi successivi, sia di destra che di sinistra, succedutesi negli anni. Per estrema viltà, o meglio per mancanza di coraggio nell’adottare soluzioni migliorative alla condizione di chi era ed è condannato a pena definitiva o detenuto, di fronte ad un’opinione pubblica che non avrebbe ben compreso le profonde ragioni degli interventi diretti a migliorare l’Ordinamento Penitenziario.

 

Né di riforma sostanziale si può scrivere riguardo alla cd Cartabia, che si è limitata a modificare ed ad attuare a distanza dalla Legge di Depenalizzazione, la 689 del 1981, il sistema delle pene alternative alla detenzione, con un ritardo di oltre quaranta anni, riconoscendo anche ai Giudici del Processo rispetto a quelli di Sorveglianza la facoltà di applicarle in casi ben determinati, con aggravio di attività da parte degli Uffici di Esecuzione Esterna (UEPE).

Una goccia nel mare. Né certamente si può scrivere di modifica del nostro Ordinamento Penitenziario, in riferimento al Progetto di Riforma cd Nordio, appena licenziato dalla Camera.

Anzi nel leggere il contenuto della norma, è evidente a tutti, che la soluzione del Problema Giustizia, non può, da parte mia aggiungerei non deve, risiedere solo ed esclusivamente nella previsione di un piano di intervento per la realizzazione di nuovi istituti carcerari, ma deve necessariamente comportare soluzioni immediate a migliorare l’attuale condizione personale di chi è detenuto o per pena definitiva o in alcuni casi, troppi per la verità, in attesa di giudizio.

Anche la possibilità per chi detenuto, di attivarsi il lavori di pubblica utilità, con nuovo comma introdotto nell’Art. 21 OP, non rappresenta una novità, limitandosi a riproporre quanto già disposto nell’Art. 20 ter, norma rimasta per lo più inattiva, se non in alcuni Istituti Carcerari per illuminata Volontà di chi li dirigeva, e non comportando benefici carcerari in relazione alla pena da scontare di chi usufruisce della misura.

Poco o nulla in breve, e non mi dilungherò ulteriormente, tranne che per rimarcare, se ce ne fosse ulteriore necessità, che nel frattempo chi è detenuto continua a patire condizioni indegne, con esperienze che definire devastanti è riduttivo e che di conseguenza, chi non riesce a venirne fuori, non trova altra soluzione che porre fine alla propria esistenza in questa torrida estate del 2024, nell’assoluto silenzio della politica, che non è in grado, o meglio non vuole, mettere fine a questa situazione che rappresenta, prima che una vergogna, un fallimento non solo per le Istituzioni, ma per tutta la società civile.

Alla “Ricerca del Tempo Perduto” dunque, o meglio “Adelante Pedro con judicio”.

La morte di unə, il dolore di tant3

LIVIA

Due settimane fa abbiamo scritto un articolo sul sovraffollamento, il caldo e i suicidi in carcere.

Il tempo di pubblicarlo ed è uscita la notizia di un nuovo suicidio e poi di un altro, e poi di un altro ancora.

Tenere questo conto comincia a diventare difficile sotto tutti i punti di vista, solamente chi dovrebbe farsene carico, lo stato e chi lo rappresenta, sembra non avere difficoltà in merito.

Perché questo è importante sottolineare, il carcere è un’istituzione statale, come le scuole e gli ospedali per intenderci.

Tutt3 dovremmo interrogarci sul perché, invece, è diventato e viene percepito come un mondo a parte dove tutto può succedere.

 

Se già più volte ci siamo soffermat3 sul lato politico e sociale dei numerosi suicidi che stanno avvenendo, ora il nostro pensiero si sofferma sul lato emotivo.

La morte di una persona provoca dolore e spiazzamento, la morte per suicidio provoca una miriade di altre sensazioni e riflessioni.

E dietro la morte di una persona c’è il dolore di tant3.

In questi casi c’è il trauma di chi ritrova un corpo senza più vita, che siano poliziott3 o altr3 detenuti; c’è il dolore e lo stupore di chi fino a qualche ora prima aveva condiviso tempi e spazi ristretti; c’è soprattutto il dolore e la disperazione di chi è fuori e a quel “detenutə suicida” voleva bene.

Dolore al quale si aggiungono rabbia, perché il carcere dovrebbe custodire e non uccidere; rimorso, per non aver capito quanto poteva succedere; rimpianto, per un’ultima carezza mancata.

Le persone detenute che si stanno togliendo la vita sono esseri umani non numeri, proviamo ad immaginare cosa significa la perdita di una persona cara, proviamo a ricordare cosa abbiamo provato quando ci è successo.

 

Purtroppo sappiamo tutt3 che ci saranno altre morti e altre rivolte, in un effetto domino potenzialmente infinito.

Purtroppo sappiamo tutt3 che continuerà il silenzio istituzionale, figlio di un disegno repressivo ampio e ramificato.

Purtroppo sappiamo che anche le nostre sono solo parole, lette da poch3 e condivise da pochissim3, ma continueremo a scrivere, a lavorare, a lottare e indignarci finché avremo fiato.

Vissuti di dentro: racconti di incontri, legami e domandine

Lo scorso febbraio, in seguito a un commento ricevuto sotto un nostro post, un ex detenuto e utente della cooperativa ha deciso di condividere con noi la sua voce che oggi raccontiamo qui. Domenico è uscito definitivamente dal carcere nel 2022, un passato non molto lontano, ma è oggi libero e sereno perché “ha pagato tutto” e “non ha più nulla da nascondere”. La nostra chiacchierata inizia più o meno così: 

A. «Posso registrare?»

D. «Sì va bene tanto io non ho niente da nascondere, non ho più niente da nascondere. ‘Na volta sì adesso no».

LE PAROLE DI DOMENICO

Io ho conosciuto il PID nel 2005 dopo l’ennesima domandina che ho fatto, perché ne ho fatte svariate per poter parlare con un’operatrice del PID, eh!

Nel 2008 sono uscito e mi sono affidato al PID perchè io tutte le volte che sono uscito prima me ritrovavo sempre in mezzo alla strada e dovevo sempre fa’ reati, come me tanti altri detenuti che non hanno nessuno, nessun riferimento, nessuna opportunità diciamo. 

E il PID mi ha aiutato. Mi ha inserito nelle borse lavoro e mi sono trovato bene, non ho fatto più reati. E non mi hanno mai abbandonato, neanche in queste altre occasioni perché lo sapevano che io ormai ero uscito da tutto il contesto di delinquenza. 

Poi ho avuto altre carcerazioni, nel 2015 e nel 2019 ma erano tutte cose vecchie, prima del 2005 che sono andate definitive perché come si sa i processi vanno per le lunghe. 

 

A.«La famosa giustizia lenta?»

D. «Ma non direi lenta, lentissima».

Mi sono affidato a loro e sono riuscito adesso nel 2022. Grazie al PID però, perché mi ha dato una grande mano facendomi conoscere un’avvocatessa seria e mi ha salvato perché sennò il mio fine pena era il 2034.

Un lungo percorso “dentro” 

Ho cominciato con Porta Portese da minorenne e l’ho chiusa diciamo nel ‘67/’68. L’ex carcere minorile sarebbe. Poi sono andato a Regina Coeli, Rebibbia, San Vittore. Perché andavo pure fuori a lavorà, tra parentesi. San Vittore, Livorno, Firenze (sempre da minorenne) in Via della Scala; Chieti, dopo la rivolta del ‘74 a Rebibbia. Perché stavo là io quando c’è stato tutto il casino e abbiamo distrutto tutto quanto.

A. «Hai partecipato alle rivolte?»

D. «Si, ho fatto un casino lì. Ancora ero un ragazzo che la testa non c’era».

Entravo, uscivo, entravo, uscivo. Mi ritenevo l’omo più bevuto d’Italia

Che poi quando uscivo mi ritrovavo un’altra volta per strada… Dovevo campare, dovevo mangiare. Non avevo famiglia, non avevo niente.

Le domandine in carcere

In carcere devi fare domandina per tutto, per tutto ci vuole la domandina: per poter parlare con l’assistente sociale, per poter parlare con la psicologa, per poter parlare con il direttore, con il “capo posto” (il capo del reparto). 

Per fare entrare dentro un paio di scarpe nuove ad esempio, perché le vecchie sono rotte, devi darle prima indietro (le vecchie) altrimenti non entrano (le nuove). 

 

E certe domandine si perdono, diciamo si perdono… Tante le cestinano e invece tante si perdono. La domandina è tutto, senza domandina in carcere non ci fai niente.

Molte però, forse la maggior parte vengono perse. Io per poter parlare col PID ho fatto innumerevoli domandine. Finalmente poi mi hanno chiamato “Domenico? Devi anna’ a parla’ col PID”. “Oddio che sta a succede!”

Gli affetti da dentro e le feste in carcere

Allora uno che fa quando non trova un aiuto e si ritrova per strada?

Questo è quello che dicevo io… 

 

E lì ho passato svariati Natali, Natali brutti. Natali dove ho visto tanta gente, “criminali per davvero”, che in quei giorni la soffrivano veramente la galera. La soffrivano proprio perchè la gente diceva “sì, so criminali e tutto quanto” ma dentro c’hanno sempre ‘ncore. Hanno i figli, le famiglie, le madri, i padri che hanno lasciato fuori.E per quanto delinquenti senti che ti mancano quando arrivano questi giorni particolari. 

Sono gli affetti che mancano, mancano.

Io ce ne avevo pochi di affetti in quei periodi. Dopo ce ne ho avuti tanti, nel 2005 i miei due figli. Nel 2019 mio figlio era in clinica, ricoverato che ora sta male e lo seguo io, viviamo insieme perché da solo non può stare. Stiamo io e lui, lo aiuto con le terapie e quello che deve fare. Stiamo tranquilli.

A. «Quindi hai trovato la tua serenità in qualche modo?»

D. «Sisi, adesso sì. E cerco di dargliela pure a lui».

Torneremo a Domenico e alla storia, ai suoi preziosi racconti e alle sue parole desiderose di una giustizia che non dimentichi nessuno.

Quello di Ilaria Salis è un caso che non è possibile ignorare

È una detenuta come noi ma in condizioni peggiori

Ilaria Salis, una maestra italiana di 39 anni l’11 febbraio dello scorso anno è stata arrestata a Budapest durante il “giorno dell’onore”. Non è un segreto ormai per nessuno. Pochi giorni fa abbiamo assistito alle immagini di una donna col viso scarno, con i polsi e le caviglie legate strette, con le catene a limitarne i movimenti. L mi ha scritto che non può tacere di fronte a quelle immagini, di fronte a questi fatti, al “pozzo” in cui Ilaria – e altri come lei – è stata sbattuta ormai da quasi un anno.
Che cos’è il “giorno dell’onore”? Quali sono le accuse volte a Ilaria Salis? Lo riassumo brevemente prima di lasciare spazio alle parole di L che principiano in realtà già con il titolo di questo articolo. Dunque, l’11 febbraio si ricordano i soldati tedeschi caduti nel 1945 tentando di rompere l’assedio dell’esercito rosso. Gruppi di neonazisti europei quindi si incontrano e manifestano, celebrano i nazisti del passato. E con essi, le loro ideologie suprematiste. Insomma, uno dei raduni più importanti dei neonazisti d’Europa. 
Ilaria Salis è accusata di aggressione a due di questi personaggi, insieme a un altro antifascista tedesco. Vogliono condannarla a 16 anni di carcere, con due aggravanti che rendono il caso di Ilaria “un caso politico”. Puntuale e lucido come sempre, Zero Calcare ripercorre questo caso con un fumetto, pubblicato dall’Internazionale online e che consiglio di leggere.
Lo trovate qui: “Una storia di nazisti, di galera e di responsabilità”.
LE PAROLE DI L

“E poi e poi la notte che non passa…”: Dal “non ho sentito” al “non ho visto” – il caso di Ilaria Salis

La ferocia non gli difetta. È indelebile l’immagine di quell’esponente delle istituzioni che alla Scala di Milano, di fronte all’ urlo liberatorio di un cittadino “viva I’Italia antifascista”, con giravolte simili a quelle di un trapezista di un circo rispondeva ai giornalisti “non ho sentito”. Ma c’è di più, ora siamo al “non I’ho visto” di un senatore capotreno parente affine di un’alta carica governativa che con sprezzo del ridicolo e una sottile perfidia ha dichiarato con la velocità di un Frecciarossa che lui il video di Ilaria Sails trascinata alla maniera di un quadrupede davanti ad un Giudice del regno sovranista di Orban lui, quello schifo, proprio non l’aveva visto . Siamo al solito “garantismo strabico” trentennale di questi per così dire, rappresentanti istituzionali dentro e fuori questo Paese. Sono fatti così, per loro è normale. 

Verrebbe da dire che Lombroso sussurra al loro cuore (se un cuore ce I’hanno) di stare sempre dalla parte dei forti e dei privilegiati, rimanendo indifferenti quando non feroci con gli altri, quelli meno fortunati, che nelle carceri sono la maggioranza.

 

Tutti noi detenuti e detenute esprimiamo solidarietà a Ilaria Salis, costretta con le catene ai piedi in un Tribunale dopo quasi un anno di indicibili maltrattamenti subiti in un maledetto carcere ungherese. 

 

“E poi e poi.. a la notte che non passa mai”. Direbbe Giorgia. Giorgia la cantante, naturellement. Ma speriamo che passi, le auguriamo noi.

M49

Nel bene e nel male – Terzo giorno

Terzo giorno di galera, il ricercatore “Orso” racconta: Ore 8 e trenta del mattino, apertura del blindo.

LE PAROLE DI L

L’insopportabile rumore metallico delle chiavi che lo aprono segnano il terzo giorno. Quel tintinnio delle chiavi sai che te lo porterai dietro per tutta la carcerazione. Dopo una notte in cui, preda delle tue angosce, pensi che “il futuro è passato e non te ne sei accorto”, proprio come in un film di Ettore Scola, ti alzi e scendi dalla branda e dai il buongiorno a tutti.

Poi sommessamente, tra te e te, pensi “buon giorno un ca**o”. Prendi un caffè che il tuo vicino di branda ti offre dopo averlo preparato con il classico fornello da campeggio.

Poi vai in doccia, è la terza volta, ma non sei ancora abituato e ti lavi senza le mutande proprio come facevi 72 ore prima dell’arresto.

“Ma che fai? Qui sei in galera” – ti dicono gli altri. “Ah scusa, me ne ero dimenticato” – rispondi, non ancora aduso a certi riti ai quali dovrai abituarti in fretta.

 

Ti vesti e vai al passeggio o all’aria, chiamatela come volete. 

 

“Ciao sei nuovo? T’hanno bevuto I’altro giorno?”

Lì per lì non capisci subito, pochi istanti dopo ricolleghi la parola “bevuto” a quella dell’arresto, ti abituerai presto a questo lessico colorato. “Il detenuto – tanto per usare una citazione erudita –  è un essere che si abitua a tutto” scriveva Dostoevskij. 

 

La conversazione al passeggio è tutto un susseguirsi di auspici su improbabili provvedimenti di indulto, amnistie, misure di clemenza e quant’altro. C’ è poi, irresistibile, proprio come in una fiction televisiva , l’irrefrenabile pulsione da parte di qualcuno che dando il peggio di sé si erge a tribunale dei detenuti, puntando il dito su questo o quel detenuto indicandolo a torto o a ragione poco raccomandabile in quanto “presunto informatore” o, a suo dire, “infame”.

 

Capita sovente quel colui che al primo approccio ti sembra affidabile, generoso ed altruista, ti suggerisce il nome del suo avvocato, a suo dire bravissimo ed espertissimo perché “se lo nomini ti farà uscire da questo posto in pochissimo tempo”. Ma attenzione, quasi sempre non è un atto di generosità ma il miserevole e maldestro tentativo di scaricare i costi delle parcelle del suo avvocato su di te

 

Sei soltanto al terzo giorno ed occorreranno settimane forse mesi per prendere consapevolezza piena del mondo carcerario nel bene e, bisogna dirlo, anche nel male . Per dirla tutta, non crediate che ci sia più umanità in carcere che fuori. Così non va, edulcorare questa realtà è ipocrita ed i primi a dirlo dobbiamo essere proprio noi detenuti.

Il carcere è semplicemente “lo specchio deformato” del mondo libero. 

Queste cose vanno dette.

Nel bene e nel male.

M49 

Carcere e omofobia

Carcere e omofobia, maternità surrogata e tutte le ipocrisie (o solo alcune) del mondo contemporaneo. Le tematiche che attraversano ogni giorno le strade e le case del globo incontrano e travolgono la società nascosta, la parte che si dimentica, a cui non si pensa.
L, come un lucido osservatore delle realtà socio-culturali che attraversano la quotidianità, ci racconta un carcere non molto lontano dalle nostre città. Non molto distante dalle idee e dalle narrazioni in cui si impigliano quei tanti modi di essere umani tra umani. E così, anche oggi, L ci dice la sua mettendo nero su bianco le sue riflessioni e consegnandole allo spazio di condivisione del blog.

“E si farà l’amore ognuno come gli va”

Lucio Dalla

LE PAROLE DI L

Non ho altre parole e non voglio trovarne. So che attirerò gli strali di alcuni detenuti (non la maggioranza per fortuna) ma è giusto dover dire che una certa “fascinazione” per l’ uomo forte gerarchicamente posizionato è molto presente in carcere e quindi soltanto sollevare certe questioni, tra queste quella dell’omofobia, è come cercare di abbattere “muri mentali” assolutamente difficili da rimuovere. Parliamo di pregiudizi e stereotipi costruiti nel tempo, a cominciare dai disgustosi commenti sul “cromatismo della pelle”, ma di questo parleremo un’altra volta. Si fatica a capire fuori di qui e “qui dentro” che a dover prevalere è la libera scelta delle persone. È questo il vero discrimine etico. Invece con giudizi talora spregevoli finiamo per rinchiudere in cella non soltanto i nostri corpi, ma la nostra mente e le nostre parole. 

“Le parole sono importanti” direbbe Nanni Moretti, invece sono anch’esse prigioniere entro categorie. Non capiamo che ci sono coppie omogenitoriali che vivono con bambini felicissimi e ignoriamo l’esistenza molto diffusa delle cosiddette “famiglie atipiche” in cui le relazioni contano più dei ruoli tradizionali. A prevalere in questi casi è la genitorialità. Si può essere madri o padri anche con figli concepiti da altri perché i figli sono anche di chi li cresce e non sempre di chi li concepisce. Basta con certi precetti morali! Per screditare le famiglie omogenitoriali si usa anche in modo strumentale la questione della maternità surrogata,  enfatizzata e volgarizzata come “utero in affitto” omettendo di dire che nel novanta per cento dei casi questa pratica riguarda famiglie eterosessuali

 

Il mantra “Dio Patria e Famiglia” è in crisi. Le nuove generazioni lo sanno. A non capirlo sono i moralisti d’accatto che si ergono a difensori della famiglia tradizionale patriarcale e finiscono poi nella loro vita privata a vivere di tradimenti, di bugie e di ipocrisie quando va bene e, quando va male, si voltano dall’altra parte se tradimenti e bugie finiscono in tragedie in cui a pagare con la vita sono le donne.

Orso M49 

Riflessioni di L sull’attualità

LE PAROLE DI L

Quante volte

Quante volte con improvvidi “cazzeggi” giuridici ci scagliamo noi detenuti con improbabili certezze contro la cosiddetta ” discrezionalità” del Magistrato di fronte ad una sua ordinanza? Senza rendercene conto difendiamo interessi non nostri che non ci appartengono, interessi ” diciamolo pure ” apertis verbis” di “classe ” .

Pochi giorni fa la Giudice Valeria Ciampelli ha deciso di applicare la misura cautelare del solo divieto di dimora ad una donna , Zaira, di Tor Bella Monaca difesa dalla avvocata Manila Salvatori. Zaira era stata fermata dalla Polizia con alcune dosi di crack ed eroina. Non era la prima volta: una donna disperata con un marito morto in un incidente , con dei bambini senza futuro , prospettive di lavoro, nulla. La Giudice ben lungi dal sollevare in modo “lombrosiano”il sopracciglio e percependo il dramma di questa donna e la condizione di marginalità sua e dei suoi bambini che con un padre ormai deceduto ed una madre in galera chissà dove sarebbero finiti ha deciso di attenuare la misura.

Senza la discrezionalità , senza questo strumento di garanzia tanto inviso al garantismo di classe, quello a corrente alternata per intenderci dove si è deboli con i” colletti bianchi”e duri e puri con i “poveracci” tutto questo non sarebbe potuto accadere.

Quante volte anche noi detenuti ci lasciamo andare a supercazzole giuridiche il Giudice non è un” algoritmo” e non è ancora subalterno al potere politico.

Un atto di giustizia

Poche settimane fa un decreto del tribunale civile di Matera ha ordinato alla ASL di eseguire una risonanza magnetica ad una donna di 51 anni che da settimane a causa di alcuni noduli al fegato cercava di sottoporsi a questo accertamento. La donna non aveva i soldi era in uno stato di indigenza , un quadro disperante insomma, e non poteva per fare in fretta , attesa la gravità , rivolgersi ad un privato. Salvifico è stato il provvedimento di un Giudice ,il dott. Angelo Franco, il quale accogliendo il ricorso dell’avvocato Angela Maria Bitonti , Presidente dell’Associazione per la tutela dei diritti dell’ uomo I’ “ADU“, ha poi consentitola TAC.

Noi detenuti pervasi, è comprensibile, da un pregiudizio ideologico, (siamo o siamo stati pur sempre in carcere a seguito di una condanna emessa da un magistrato) ci saremmo aspettati tutto tranne che vedere un magistrato porre coraggiosamente rimedio questo singolo caso . Ciò che traspare in modo evidentissimo è la selvaggia privatizzazione ispirata da lobbies economiche che in nome del” profitto” e forti della loro presenza nei consigli di amministrazione, condiziona le scelte dei politici” sponsorizzandone” la loro elezione in Parlamento.

Un plauso a questo Giudice che potremmo dire ha dato coraggio alle paure di questa donna, alla sua disperazione, alla sua marginalità.

“Sconfiggere la povertà non è un atto di carità, è un atto di Giustizia”.
Nelson Mandela

Il passato che non passa

“A noi…II dovere di reprimere!” è la frase di un film …

La guerra agli ultimi, ai marginali ai migranti alle mamme detenute con figli minori ai detenuti quelli ristretti in carcere e quelli rinchiusi senza titolo nei C.P.R., la guerra nei loro confronti è già cominciata con l’inasprimento delle pene. Si creano nuove norme, si assimila la resistenza passiva del detenuto che disobbedisce a quella del detenuto violento, si fa la stessa cosa con i ragazzi ambientalisti considerati con le nuove norme alla stregua di terroristi.
Tutto questo con buona pace dei reati finanziari e fiscali ed anche quelli di mafia dove il “bottino” il mal tolto o chiamatela come credete la “refurtiva” è di gran lunga superiore.

Questa è la predicazione di chi ci governa, del “Presidente del Consiglio” (non ama le declinazioni al femminile e non la chiameremo” la Presidente” vittima com’è della sua concezione patriarcale) che si dice “orgogliosa” di questo pacchetto sicurezza.

Siamo ormai al balconismo recidivo non più a Piazza Venezia ma poche centinaia di metri più in là a Palazzo Chigi.

“La città è malata ad altri spetta il compito di educare e di curare, a noi il dovere di reprimere la repressione è il nostro vaccino!”

Sono le parole di Gianmaria Volontè nel panni di un funzionario di polizia nel celebre film del 1970 di Elio Petri “Un cittadino al di sopra di ogni sospetto”.

Il passato che non passa, bellezza.

 

ORSO M49

La giustizia di classe

La giustizia di classe, secondo il nostro ricercatore spossato: L commenta la perplessità dell’esecutivo riguardo il recente provvedimento della Giudice di Catania. Le sue riflessioni principiano spesso dal profondo desiderio di non restare fuori dal mondo, di condividere il proprio punto di vista e dimostrare, un po’ a se stesso, ma soprattutto alle altre persone,  che la detenzione non deve necessariamente rappresentare una “chiusura” nei confronti di quel che accade all’interno della società per intero e di tutto quello che non riguarda in modo diretto l’universo totalizzante della reclusione e della pena.
LA GIUSTIZIA DI CLASSE SECONDO L

Vorremmo tanto che qualcuno spiegasse alla “nostra” basita (sic) Presidentessa, ma non chiamatela la “Presidentessa” altrimenti s’inca**a… (a tal punto da fare gioire Crozza che la “parodizza” in modo impareggiabile) vorremmo, dicevamo, che fosse a conoscenza che Montesquieu non era l’allenatore di una squadra di calcio francese, il Paris Saint. Germain o il Marseille ma il teorico della separazione dei poteri: quello esecutivo, legislativo e quello, se ne faccia una ragione, giudiziario. Non le hanno detto che anche chi ha il mandato popolare deve conformarsi alla Costituzione (Articolo 10) ed alle norme di diritto Internazionale

Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilita dalla Legge”.  

La vicenda è quella che riguarda la Giudice di Catania Dott.ssa Iolanda Apostolico che con un coraggioso provvedimento ha ritenuto illegittimo sostenere che la provenienza dalla Tunisia (Paese sicuro e democratico in realtà soltanto a parole) di alcuni poveri disperati possa essere una motivazione valida per il “fermo” e la detenzione degli stessi.

 

Verissimo, atteso che i “fermi” dovrebbero considerare la “posizione” degli esseri umani e non il Paese da cui provengono. Sui social già imperversa lo “squadrismo digitale” infarcito di apprezzamenti d’ogni sorta nei confronti della dottoressa Apostolico. 

Quelle della Giudice Iolanda Apostolico sono valutazioni giuridiche e non politiche.

Il fermo di Polizia disposto dal Questore sulla base di un  provvedimento incostituzionale del Governo doveva essere annullato. 

È tutto surreale, sembra di essere tornati ai tempi del Berlusca… ricordate? 

È un déjà-vu.

 

Il Cavaliere sì, proprio quello che aveva nella sua villa assunto come “giardiniere” uno stragista latitante e che con noncuranza urlava attraverso i “servi sciocchi” delle sue tv contro la magistratura milanese indicandola vergognosamente come “un’associazione a delinquere”, “un cancro da estirpare…” usando come corpo contundente, un giorno sì e l’altro pure vergognose leggi classiste ad personam partorite dal suo Esecutivo, ma pensa un po’ proprio lui … parce sepulto. 

La nuova Presidente qualche decennio dopo con toni più “rozzi” ha rispolverato lo stesso copione, lo stesso armamentario con esternazioni che sono una topica colossale.

 

Queste vicende riguardano tutti, anche noi detenuti appartenenti con modalità diverse alla categoria degli ULTIMI. Dobbiamo solidarizzare con gli altri detenuti, peraltro senza titolo, rinchiusi nei centri di detenzione. Bambini, donne, uomini con la sola colpa di aver cercato, disperatamente (con un’improbabile fuga verso la libertà), una vita dignitosa. 

Questo è il Belpaese della “bulimia normativa” delle improbabili “decretazioni d’urgenza” rovesciate poi sui social per carezzare gli istinti più bassi e feroci della gente. Politici che non creano il consenso con argomentazioni degne, semplicemente lo inseguono correndo dietro ai sondaggi.

Questo è “ il Belpaese “ dove si abolisce l’abuso d’ufficio, si vogliono inasprire le pene per il piccolo spaccio praticato da ragazzi che se non “recuperati”, una volta in carcere, finirebbero con il perfezionare ed approfondire le proprie abilità criminali.

Quando poi si deve perseguire la grande evasione fiscale con ridicole flatulenze verbali condite da ridicole giustificazioni, annunci e bla bla bla, si ricorre con sprezzo del ridicolo ai condoni.

 

È la giustizia di classe, bellezza.

 

L’ORSO-M49

 

La cultura dello stupro

ALESSIA

Come “100 cani su una gatta” si sono descritti gli autori della recente violenza consumata sul corpo di una giovane donna. Mi crea sempre un po’ di disagio il parlare o commentare l’atto dello stupro. È quasi una risposta immediata del mio corpo che in quanto corpo di donna, sente il ghiaccio del terrore paralizzarlo. 

Se ci penso, quasi a conferma di questo immediato sentire, ci sono le parole di chi tra e con le persone pregiudicate ci lavora da anni e che con il corpo di donna ci fa i conti quotidianamente: la difficoltà a interagire con i “sex offenders” è qualcosa che accomuna diversi discorsi delle educatrici della cooperativa PID e non. 

Poi sembra che fatico nel sentirmi in diritto di cercare le parole per descrivere la brutalità di un gesto che viene commentato a destra e a manca senza criterio. Spesso ci si dimentica del necessario e doveroso pudore che dovrebbe accompagnare qualsiasi tipo di atteggiamento nei confronti della persona abusata, la quale di certo merita più rispetto di quello che già le è stato negato. 

Potrei aver voluto scrivere questo disclaimer per contestualizzare la prospettiva, in punta di piedi, che assume la mia penna in questo articolo. 

 

Il punto è che di fronte a un mondo in cui la cultura dello stupro è radicata nei più piccoli interstizi delle attività giornaliere e dei pensieri più comuni, un mondo in cui ogni giorno i giornali, i social network e le televisioni si riempiono di immagini, registrazioni e parole che tolgono il fiato, diventa impossibile tacere. La violenza di genere fa parte della nostra cultura patriarcale, la cultura dello stupro si gioca sulla distorta concezione della donna e la repressione della sessualità libera che nega l’importanza del consenso, minimizza e naturalizza l’atto dell’abuso sessuale del maschile sul femminile in quanto, quest’ultimo è il rappresentante di un ruolo ben costruito. Non so a voi, ma a me è capitato spesso di ascoltare frasi come “però ci sono alcune ragazze che se la cercano”. Una persona in particolare, un semplice e “normalissimo padre di famiglia” ha detto (di fronte alla figlia adolescente) che capisce quando, purtroppo, si è in giro o in discoteca e una ragazza viene stuprata: nel senso che quando succede così è molto brutto, quando succede invece mentre una ragazza è a un party “con gli amici che si drogano” allora non può lamentarsi più di tanto perchè insomma, non ci prendiamo in giro “sai a quello che vai incontro”

 

Riporre la responsabilità della violenza sessuale subita nelle mani della vittima è cultura dello stupro, è ancora normalizzazione dell’atto di prevaricazione su quella parte della popolazione che viene definita “sesso debole”.

 

Ho sentito anche frasi come “eh ma ultimamente se ne sentono davvero tante” e ogni volta rispondo che magari ultimamente abbiamo la possibilità di denunciare con una speranza maggiore di essere credute, anche se con immensa amarezza mi trovo a constatare che non è poi tanto vero. Forse non c’è più la stessa vergogna che accompagna la donna violata senza il proprio consenso, o forse persiste pure la vergogna ma c’è chi cerca di combatterla con la ragione

 

La verità è che di tutte le persone che ho conosciuto in soli 23 anni, molte tra le donne portano con sé una storia di violenza: molestie, abusi emotivi e psicologici, schiaffi, pugni, penetrazioni non richieste. E molte donne decidono di portare il peso di questo dolore senza esprimerlo, perché possono vedere chiaramente intorno a loro il rischio di essere considerate solo un altro caso, solo un’altra vittima della cultura dello stupro

E sinceramente non le biasimo, le rispetto profondamente e taccio di fronte al loro sguardo. 

 

Allo squallore delle conversazioni dei “100 cani” reso pubblico di recente, si somma un altro tipo di squallore, più pudico e meno palesemente complice della cultura dello stupro, ma potremmo dire forse il più centrale: la negazione della violenza di genere come frutto della mentalità patriarcale e dell’inesistenza di un educazione sessuale e al consenso. La negazione arriva prepotente nell’invocazione, ad esempio, della castrazione chimica; pena che oltre ad essere incostituzionale –  dall’Art. 32 «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.» – non sarebbe utile.

 

Il discorso è sempre lo stesso, “come può uno scoglio arginare il mare?”.

Com’è possibile non pensare che il problema vada estirpato alla radice, piuttosto che reagire alla violenza con altra violenza? Quello che forse dovremmo piuttosto invocare è la necessità di cambiare in profondità le regole sottostanti le figure del femminile e del maschile. Abbiamo l’obbligo di guardarci allo specchio, come società e rete culturale che produce il femminicidio e la violenza di genere in tutta la brutalità del suo marasma e di accettare le nostre responsabilità, chiedendoci magari come potremmo riuscire a garantire a una donna la possibilità di camminare per la strada senza il timore di essere stuprata.

La cultura che genera il femminicidio

Sulla cultura patriarcale e il ruolo delle donne nella società contemporanea, si esprime L, commentando il recente femminicidio di Giulia Tramontano, senza poter trattenere l’amaro.
Di fronte a questi episodi, ti si arrovella lo stomaco. È veramente possibile che alla scomparsa di una donna, si è già tutti e tutte consapevoli che “è stato lui”?
Alcuni sostengono che non esiste più ragione per portare avanti le cause del femminismo, perché ormai si sono ottenuti tutti i diritti. Come a dire “E basta, dai. Non vi accontentate mai voi donne!”. Come si può credere veramente questo?
LE PAROLE DI L

NON DIMENTICHIAMO GIULIA!

Non crea più stupore, solo un senso di ribrezzo e impotenza, la retorica dei media all’indomani della morte di Giulia Tramontano, una giovane donna incinta di 7 mesi uccisa dal suo fidanzato. Il concetto della donna-premio, promulgato sui media anche da certi personaggi di “spessore”, sottende ancora un retropensiero del quale noi “maschietti” non ci siamo ancora liberati e con il quale non abbiamo ancora fatto i conti.

Questa “sub-cultura” può, come nel caso di Giulia, generare dei mostri. Si fatica molto a considerare la differenza tra amore e possesso. Non lo si fa abbastanza. Anche in questo caso, non riguarda solo il nostro paese: si pensi a quello che succede alle donne iraniane. Mentre in alcuni paesi europei, dove le società sono più “laiche” e le cose vanno “meno peggio”. 

 

Ogni ora nel mondo 5 donne vengono uccise da un uomo. 

 

La nostra “Commissione d’inchiesta” sul femminicidio sembra essere colpita da afasia. Noi, nel nostro paese, subiamo un retaggio culturale, come scritto poc’anzi, che ci impedisce nel XXI secolo di tenere lezioni di educazione sessuale da un punto di vista scientifico nelle scuole. Il reddito delle donne è mediamente più basso rispetto a quello degli uomini e non possono affrancarsi. Si è spesso portati a credere che la “denatalità” nel nostro paese sia colpa delle donne perché lavorano troppo e non hanno tempo per i figli

 

Forse una certa contiguità con i settori più conservatori del Vaticano ha un peso condizionante il comune pensiero della nostra comunità. Alle donne è impedita ad esempio la celebrazione della messa

 

Si dirà che di qui alle “gesta folli” dell’assassinio di Giulia c’è una distanza abissale. La verità è che se non ci si libera di una certa cultura patriarcale che è una peculiarità secolare d’Italia, queste tragedie torneranno a ripetersi.

 

Non dobbiamo dimenticarci che tutti noi maschietti siamo stati “abitanti” per 9 mesi del corpo di una donna, siamo stati nutriti e cresciuti da lei. È ora di rimuovere certe idiozie che trasudano maschilismo becero. Basta con il pensiero “un uomo che ama molte donne è un play boy” ma se lo fa una donna, questa è una … Non è possibile questo!

Si può far sesso per “amore”, per “passione” o per “mestiere”, diceva De André. E questo devono poterlo fare anche le donne, senza essere oggetto di insulti o peggio.

 

Quanto è accaduto a Giulia non sarà purtroppo, con ogni probabilità, l’ultimo episodio di femminicidio. C’è da crederlo, nostro malgrado. Viene voglia di parafrasare la celebre espressione di un film di alcuni anni fa “Ghost”: l’amore che Giulia aveva dentro se stessa, le donne in ogni angolo delle strade di questa città lo porteranno con sé.

 

Ciao Giulia, 

M49

Alla fine della fine – La crisi climatica secondo L

IL NOSTRO “RICERCATORE SPOSSATO” COMMENTA I TRAGICI EVENTI CHE STANNO VIVENDO LE PERSONE CHE ABITANO IN EMILIA ROMAGNA E LA CRISI CLIMATICA CHE  TROPPO SPESSO VIENE IGNORATA E SOTTOVALUTATA, PER PRIMA COSA NON CHIAMANDOLA CON IL SUO NOME.
LE PAROLE DI L

Vi è stato un gran parlare in questi mesi di ragazzi delinquenti che sporcavano i muri dei palazzi di potere con vernice lavabile. Erano e sono ragazzi che sia pure con “modalità discutibili” hanno voluto gettare un grido di  allarme sulla crisi ambientale in atto, sulla devastazione del nostro Pianeta.  Li hanno “demoralizzati” questi ragazzi, creando un “humus” favorevole a chi vorrebbe o potrebbe (già accade) considerarli addirittura criminali

Ognuno vede la realtà attraverso i propri pregiudizi, ma va bene così …

Che dico? Va male così!

Questa “glassa” demagogica e populista è vomitevole. 

Recentemente c’è stato anche chi ha ipotizzato nei compiti di alcuni esponenti di Fridays for Future “associazione a delinquere”. Siamo alla follia.

 

Le piogge tropicali e i fiumi che rompono gli argini in Emilia Romagna, i morti e le oltre 10.000 persone sfollate e senza più una casa sono l’evidenza della crisi climatica di cui si dovrebbe tener conto. Lasceremo alle generazioni future un Pianeta devastato. 

Non si capisce che le frasi di circostanza proferite in questi giorni non bastano, senza il coraggio di porre fine ai combustibili fossili. Non si capisce che alla fine della fine, c’è soltanto la fine. “E a culo tutto il resto” direbbe Guccini, nato da quelle parti.

 

Questi ragazzi che sporcano i muri e i monumenti sono inascoltati, protestano nell’indifferenza. Lo scorrere implacabile del tempo renderà più chiara la situazione, in tutta la sua drammaticità. Parafrasando Gramsci, è giusto dire che è odiosa questa indifferenza.

Ascoltiamoli!

 

Firmato, M49 (l’orso)

 

25 Aprile: Anniversario della Liberazione d’Italia

LE PAROLE DI B

L’anniversario della Liberazione è una festa nazionale della nostra Repubblica, di cui quest’anno ricorre il 78° anniversario. Ma… c’è un “ma”! Però… c’è un “però”! E potremmo andare avanti così all’infinito, ma “le parole sono stanche” (Giorgia, la cantante!) “anche quando sono importanti” (Nanni Moretti).

Questo 25 aprile infatti è uno dei più controversi e discussi mai celebrati. Da mesi ormai, sgomenti ed increduli, assistiamo ad una serie di “intemperanze linguistiche”, infausti “tic lessicali” ed inciampi espressivi da parte di alcune alte cariche dello Stato Italiano, inimmaginabili soltanto qualche anno fa.
Il nostalgismo di un tempo si fermava ai “treni che arrivavano sempre in orario”, alle fantomatiche pensioni di anzianità concesse da Mussolini (grande bufala storica, in quanto il primo sistema previdenziale in Italia risale al 1895, istituito dal governo Crispi), alla bonifica delle paludi (in realtà in buona parte effettuate con i fondi del “piano Marshall” nel 1948-1952 e poi della Cassa del Mezzogiorno).

A preoccuparmi non sono più queste ricostruzioni fasulle e posticce tanto care ai nostalgici di un tempo, ma ciò che mi raggela il cuore e mi fa rabbrividire è la riproposizione nel 21° secolo di concetti per me aberranti come quello della cosiddetta “sostituzione etnica”, concetti relegati nelle cantine del nostro inconscio, rimasugli ideologici riemersi dallo scantinato di una certa destra, sotto forma di sostituzione etnica. Ma noi già viviamo in una società multietnica! Londra, Parigi, Amsterdam, Milano, Roma sono già città multietniche, dove lingue e culture diverse si incontrano e, quando questo non avviene, se ne pagano le conseguenze in termini di emarginazione, intolleranza e criminalità. 

Non ci sono muri e confini ideologici che tengano, quello della sostituzione etnica è un tema riportato nel “Mein Kampf” di Hitler (1925), fascismo e nazismo ed i reduci consapevoli o inconsapevoli di quelle ideologie, continuano a brandire un’idea di Nazione, e di identità, odiosa. Lo fanno in modo perfido e subdolo, reclamando addirittura la “purezza” non soltanto etnica ma addirittura linguistica. Ignorano che il concetto di identità nazionale che rivendicano in realtà non esiste più, in quanto l’identità oggi è frutto di incontro di culture e lingue diverse, in una ricomposizione che vede la contaminazione come elemento fondante.

Il 25 aprile deve essere la festa dei Diritti, che appartengono a tutti/e, senza distinzioni di alcun tipo come ricorda la nostra Costituzione. Non possiamo rimettere in discussione questo, se diamo spazio ai peggiori sovranismi, alle più feroci posture ideologiche, rischiamo un brusco ritorno a quello stato etico che pensavamo sostituito dallo stato di diritto.

Non dobbiamo mai più farci abbagliare dal nazionalismo, ma stare dalla parte degli ultimi, degli emarginati, dei detenuti (di cui, ahimè, faccio parte), ribadendo il valore fondamentale dell’antifascismo.

L’antifascismo è solidarietà, eguaglianza, libertà di scelte individuali, attivismo sociale, parità di genere, abbattimento di muri e pregiudizi. 

Il 25 aprile mi piace viverlo così: ribadendo l’antifascismo e un mondo senza muri né confini.