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Dossier Statistico Immigrazione 2024 – I diritti negati

Anche quest’anno siamo stat3 invitat3 a partecipare alla presentazione del nuovo Dossier Statistico Immigrazione. Martedì scorso, grazie al lavoro del Centro Studi e Ricerche IDOS, insieme al Centro Studi Confronti e all’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, si è tenuto a Roma un incontro di riflessione sul fenomeno migratorio: sulle narrazioni e le rappresentazioni connotate in negativo dello stesso, il quale risulta essere, con evidente chiarezza, continuamente criminalizzato dalle politiche europee e nazionali del nostro contemporaneo. 

Riprendendo le parole dell’antropologo René Girard nell’opera “La violenza e il sacro”, Luca Di Sciullo, Presidente dell’Associazione IDOS, ha introdotto un tema cruciale per comprendere le dinamiche della società contemporanea in relazione al fenomeno migratorio e non solo. Ponendo attenzione alla potente figura biblica di Caino, la riflessione di Girard muove introno a quell’originario atto di violenza, l’omicidio di Abele, che sembra essere il fondamento della creazione delle prime città. Com’è noto infatti, Caino, dopo aver ucciso il fratello, si trasforma in costruttore di una nuova società. Questa figura di uccisore-fondatore, evocata anche da altre figure mitiche della storia umana come quella di Romolo, simboleggia una verità inquietante: la costruzione della civiltà, come la conosciamo, nasce da un fratricidio.

Questo legame tra violenza e potere è ancora vivo nelle istituzioni moderne, dove il “legislatore”, lontano dall’essere un arbitro imparziale, è intrinsecamente connesso alla violenza. Le leggi spesso legittimano il potere, creando un sistema che perpetua la negazione della fratellanza e giustifica la crudeltà come un mezzo per mantenere il controllo. 

Osserviamo, come ci invita il Dossier Statistico Immigrazione, che nella gestione politica del fenomeno migratorio, la violenza diventa non solo tollerata, ma più precisamente incoraggiata: la risposta che si propone di fronte ai “nemici esterni” che valicano i nostri “confini” è quella dell’allontanamento, della deportazione e dell’eliminazione.

 

Negli ultimi trent’anni le persone migranti sono diventate il capro espiatorio di tutte le difficoltà sociali ed economiche che affliggono l’Europa. Come osserva Di Sciullo, l’ostilità verso i migranti non è più solo un fenomeno sociale, ma una politica istituzionalizzata. Le leggi più recenti sono sempre più dure, crudeli e prive di fratellanza. Le persone che arrivano sulle nostre coste sono trattate come numeri, private dei diritti fondamentali e costrette a vivere in una condizione di precarietà giuridica e sociale.

In particolare, l’Italia ha avviato un processo di esclusione che si estende ben oltre le politiche di accoglienza. Le persone migranti sono esposte allo sfruttamento lavorativo, a condizioni di vita disumane nei CPR, e a una burocrazia che rende difficile, se non impossibile, il riconoscimento della cittadinanza. La politica migratoria dell’ultimo ventennio è una politica di “chiusura”, che non solo impedisce l’ingresso, ma crea vere e proprie “zone grigie” di esclusione, con la complicità di governi europei che chiudono gli occhi davanti agli abusi sistematici.

 

Oltre i numeri che spaccano gli schermi dei nostri smartphone e impoveriscono non di poco lo scenario di pericolosi riduzionismi, ci sono ancora una volta le persone e le loro vite. Questi incontri, questi momenti di riflessione che nascono grazie a un lavoro così minuzioso com’è quello del Dossier statistico sull’immigrazione, ci ricordano che fortunatamente, sono molte le voci che continuano a battere il colpo per la difesa dei diritti umani

Tra i contributi del 29 ottobre, quello di Nawal Sofi, in collegamento video, ci ha maggiormente restituito la cifra delle condizioni di vita delle persone che migrano, il frutto marcio delle politiche europee e nazionali. Nawal Sofi coordina le operazioni di salvataggio in mare, denunciando quotidianamente le violenze ai confini dell’Europa e le condizioni in cui vengono detenuti i migranti. “Le storie che non possono essere raccontate” – come ha affermato – sono quelle di chi, a causa di torture, rapimenti e ricatti, è costretto a subire un silenzio forzato. Queste persone si trovano intrappolate in un circolo di violenza e sfruttamento che non lascia via d’uscita.

 

Il quadro che emerge è allarmante: l’Europa si sta lentamente trasformando in una fortezza, dove l’indifferenza si sta sostituendo all’umanità, e il diritto d’asilo è ridotto a un’illusione. Le politiche migratorie diventano sempre più crudeli, e l’assenza di una risposta civile e solidale porta a una crescente “assuefazione” dell’opinione pubblica. Questo fenomeno, come ha sottolineato ancora Di Sciullo, è pericoloso: mentre le atrocità si moltiplicano, la capacità di indignarsi si affievolisce. La violazione dei diritti umani diventa “normale”, come se fosse inevitabile e giustificata dalla difesa delle frontiere e dalla protezione della “sicurezza”.

Diventa a questo punto fondamentale che la società civile, le organizzazioni e le istituzioni tornino a riflettere sul valore della solidarietà. La condizione dei migranti è solo la punta di un iceberg di disuguaglianza e ingiustizia che non può essere ignorata, se vogliamo costruire un futuro migliore per tutt3.

 

Nelle prossime settimane, grazie ai dati e alle analisi proposte all’interno del Dossier Statistico Immigrazione 2024, ragioneremo sulle condizioni dei migranti nelle carceri italiane e non solo.

Lasciamo qui sotto gli articoli sul Dossier Statistico Immigrazione degli anni passati:

Dossier statistico immigrazione 2022 – i migranti nelle carceri italiane

Dossier Statistico Immigrazione 2023

 

Guardare il mondo da un balcone

Il primo incontro con E sul balcone della struttura è stato decisivo per scegliere l’argomento di questo articolo. E ci racconta come, osservando le persone che passano per la strada, nascono le riflessioni più stimolanti. 

Osservare la vita degli altri dal balcone, è proprio vero, ti lascia delle riflessioni importanti: ti permette di vedere la vita da molti punti di vista. Ragionamenti che ti fanno vedere la vita in diverse dimensioni, le quali spesso ti fanno salire la rabbia per delle situazioni ingiuste che si osservano.

Vedo spesso qui sotto passare una donna, una signora anche molto anziana che rovista nella spazzatura. Penso ci voglia veramente una bella forza d’animo per scendere al gradino più basso della dignità a rovistare nella spazzatura per cercare del cibo.

Vedo anche gente giovane a rovistare nella spazzatura. Dov’è la realizzazione di una persona? Io non lo capisco. 

Le condizioni di lavoro e gli stipendi dei giovani sono abbastanza dignitosi per permettere a un giovane che non ha una famiglia di vivere, non di sopravvivere?

E per tutti quei giovani che passano gli anni a studiare, anche con risultati eccellenti, che si ritrovano poi a lavorare come camerieri? 

Si aprono dentro di me una serie infinita di pensieri sulle condizioni dell’uomo nella società contemporanea che spesso non trovano risvolti. 

La vita di per sé è un sacrificio continuo, il sacrificio serve sempre per modificare in meglio la propria vita. 

Oggi quando io sono sul balcone mi guardo intorno e vedo le case, le famiglie di persone benestanti e i ragazzini che si divertono per la strada la sera: vedo la spensieratezza, con poca consapevolezza delle realtà di disagio che esistono concretamente nella nostra società. Se mi sposto in un altro quartiere diverso però noto una realtà molto differente rispetto a questa. 

E allora quello che sul balcone mi fa riflettere principalmente sono le contraddizioni della vita sociale

Tutti siamo esseri umani però non è vero, noi abbiamo classificato le persone in base all’utile che rappresentano. 

Lasciare sempre aperta la porta della diffidenza nei confronti dell’altro mi sembra importante, è quello che consiglio spesso ai miei figli: un meccanismo di difesa fittizio perché pensi di proteggere te stesso in questo modo ma di fatto non succede.

Quando sei in una situazione di obbligo gli sforzi dovrebbero essere sempre più intensi per cercare di rendere meno pesanti le contraddizioni della vita sociale e per farlo è importante sempre la conversazione tra gli individui.

Diametralmente opposto all’episodio della vecchietta che raccoglieva la spazzatura, il quale va ad evidenziare una problematica radicata nel profondo del nostro paese, c’è l’espressione dell’umanità che si cura della propria comunità nella figura della “signora ecologica”.

Una donna che passa sotto il balcone della struttura e pulisce la strada dall’immondizia. Un gesto nobile che ti fa ragionare: una differenza sostanziale rispetto a molte altre persone che si vedono passare e buttare le cose in ogni posto, senza avere cura di nulla. 

Penso che la signora voglia giustamente mantenere un certo decoro urbano e potrebbe essere considerata proprio nel ruolo del buon cittadino, un ruolo marginale se si pensa al menefreghismo che regna nella società di oggi.

Quello che fa la signora ecologica dovrebbe rappresentare un esempio per tutti su come ci si deve comportare nelle città italiane, perché chiaramente in altri posti del mondo la situazione cambia e non poco, ma questa rimane un’utopia

Noi siamo consapevoli di ciò che ci circonda ma siamo abituati a questo: è una questione culturale. Non cambierà nulla dunque, finché non verranno predisposte delle strutture, messe in atto delle strategie per sensibilizzare ed educare le persone a vivere in società

LE PAROLE DI E

Le contraddizioni del carcere

Le contraddizioni del carcere, secondo E

Il presupposto da cui vorrei iniziare il discorso è che per la sua funzione, il carcere è già di per sé una contraddizione.

Se partiamo da una prospettiva più lontana, dobbiamo dire che è inevitabile che un carcere in una società umana qualsiasi, diventi un posto di isolamento, un po’ come un ghetto. 

A chi serve il carcere oggi? Cos’è veramente il carcere oggi? 

Andando indietro con il tempo, penso alle persone che si ammalavano di malattie particolari e venivano messe da parte, chiuse nei ghetti e isolate dal mondo: poi non importava più a nessuno di loro, potevano vivere o morire ma una volta che venivano chiusi lì, veniva dimenticato il problema. 

Lo stesso accade per il criminale in carcere.

  1. Isolamento ai fini della rieducazione;
  2. L’atteggiamento delle persone che lavorano in carcere;
  3. Povertà e immigrazione;
  4. Le Case Famiglia;
  5. Quando la comunicazione funziona.

Isolamento ai fini della rieducazione

Il concetto di isolamento di ciò che è indesiderato mi fa porre la domanda: se il carcere non ha come fine ultimo quello dell’isolamento e la nostra Costituzione dice che deve essere portato ai fini di un recupero, perché non c’è il ragionamento, la comunicazione e la comprensione dietro al rapporto con il detenuto? 

L’articolo 27 della Costituzione italiana

《L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.》

Questa è anche una contraddizione della condizione umana.

Ognuno di noi ha i suoi difetti e il suo modo di pensare, e tutto questo si ripercuote spesso sul mondo del lavoro, nei rapporti di famiglia e nella vita in generale: allora perchè non lo pensiamo anche all’interno dell’istituzione carceraria?

Ragionare, conoscere e dialogare – non c’è migliore forma per capire l’altro e per far sì che il detenuto ritorni a vivere all’interno di un equilibrio sociale.

La contraddizione sta nel dualismo delle figure interne al carcere: agente – detenuto, che si legge nel rapporto pregiudiziale instaurato tra “io, agente di Polizia Penitenziaria” persona onesta e “il criminale”, colpevole e disonesto. 

Se il carcere è solo una cella, una sbarra dove le persone ti dicono “puoi mangiare questo e non quello” ecc. il recupero, la rieducazione non avviene. Non lo vedo se guardo al nostro paese e ci sono persone che non arrivano a fine mese, che non hanno i soldi per mangiare e che dormono sui cartoni. Ed è questa la più grande contraddizione di una società che genera contraddizioni. Come si può pretendere da una persona che non ha nulla, che una volta uscita fuori dal carcere non commetta nuovamente un crimine? Come può fare a mangiare e a vivere dunque, senza lavoro né possibilità concrete di trovarlo? 

Se si ragiona da esseri umani, guardiamo al detenuto come una persona che sì, ha sbagliato e ha commesso un reato, ma perché l’ha fatto? Dobbiamo interrogarci sul come poter evitare che succeda in futuro o che succeda ad altre persone come lui. Dobbiamo capire cos’è che produce questo: se queste rimangono solo parole ai fini di buone intenzioni che non si traducono in azioni concrete, l’istituzione va a chiudersi e il carcere rimarrà tale.

Questa è la mia visione del carcere. 

L’atteggiamento delle persone che lavorano in carcere 

Voglio mettermi nei panni dell’altro prima di pensare dal mio punto di vista alle persone che lavorano in carcere e al loro atteggiamento di pregiudizio. 

Chi lavora nel carcere deve svolgere la sua attività lavorativa e non ha dunque il tempo di relazionarsi con i detenuti. Non dico che sia giusto ma è un dato di fatto che l’agente penitenziario mantenga un atteggiamento che pregiudica il detenuto. L’agente, o il secondino – come prima venivano chiamati (non che oggi vedo molta differenza tra i due ruoli) – deve sempre presupporre che l’altro voglia altro da lui e che abbia un secondo fine. Ripeto, non è giusto ma è così: perché così è la vita in generale, secondo il mio parere. 

La gente che viene dentro dice semplicemente “Quello è un criminale” e punto. 

Le cose cambiano solo attraverso la comunicazione, per cui si crea un rapporto interpersonale e comincia ad entrare l’umanità in carcere. Questo non avviene, o comunque non avviene per tutti e non sempre. 

Povertà e Immigrazione

La realtà del carcere è variopinta, le persone che incontri dentro sono veramente di tutti i tipi. Voglio guardare in particolare alla povertà che c’è – sia dentro che fuori – e alla situazione di disagio degli immigrati perché è pieno di gente così in carcere. 

Chiediamoci quindi perché?

Il Reddito di Cittadinanza sarebbe potuto essere un vantaggio in questo senso ma hanno creato delle condizioni negative: hanno prima messo dei paletti e poi li hanno calpestati. Alla fine è uscito fuori lo sporco e tutti si lamentano al riguardo e vogliono categoricamente abolire il sussidio, quando invece può ancora essere uno strumento utile, soprattutto per tutte quelle persone che ne hanno veramente bisogno per vivere. In questo senso potremmo ragionare su quanto il RdC potrebbe essere utile anche per impedire che persone in condizioni di estremo disagio economico commettano crimini. 

Per quanto riguarda la situazione degli immigrati in carcere, dobbiamo capire bene perché ce ne sono così tanti: cioè chiederci se l’accoglienza sia reale.

Sono ancora contraddizioni, perché se una persona viene accolta, deve essere accolta nel modo giusto. Sono persone che hanno bisogno di mangiare e di vivere nelle condizioni più dignitose possibili. Nel momento in cui questo non viene predisposto per loro, dallo Stato chiaramente, non ci si può stupire più di tanto se le carceri si riempiono con individui stranieri che vivono disagi reali. 

Ci sono tante questioni per le quali secondo le diverse sfaccettature da cui uno le può guardare, ti portano a vedere che dobbiamo essere noi stessi, o meglio la società per intero e soprattutto chi governa la società – chi fa muovere questa macchina umanitaria nel miglior modo possibile – ad essere umani e a praticare l’umanità. Dobbiamo riflettere bene sull’attenzione che diamo nel confronto con l’altro: alla sua condizione di vita e sentire empaticamente cosa prova e quale sia stato il percorso che l’ha condotto a prendere scelte sbagliate.

Le Case Famiglia

Le Case Famiglia o strutture di accoglienza per detenutə sono forme di assistenzialismo che secondo me, nei fatti muoiono lì. Lo scopo che sta alla base è nobile, ma ancora mi ritrovo a dire che le buone intenzioni non sono sufficienti

Dovrebbero secondo me creare delle strutture, come le Case Famiglia, che siano però convenzionate con le fabbriche: i detenuti per vivere fuori devono poter lavorare. 

Come si risolve il problema? Ci sono le possibilità tecniche ma fino a quando non vengono colte, le strutture di questo tipo restano un punto fermo: è necessario creare una rete in cui alle piccole e medie imprese risulta più conveniente assumere un pregiudicato. Ci deve essere una presa di posizione reale e consapevole dei problemi delle persone, a prescindere dalla destra o dalla sinistra. Fino a quando i nostri rappresentanti politici non inizieranno a pensare alle persone e per le persone, invece che a se stessi e ai loro soldi, le cose non cambieranno.

Quante Case Famiglia per detenutə ci sono a Roma? Non ce ne sono tante, diciamo che saranno una decina? Quante persone possono accogliere? Tre o Quattro. 

Gli spazi in cui si muovono queste strutture sono limitati ed effettivamente è negativo. Non voglio per questo attaccare la Casa Famiglia in sé, ma guardandola dal punto di vista della sua funzione – quella del reinserimento – non vedo quale sia il senso: vedo ancora troppe contraddizioni tra le condizioni reali delle situazioni e la teoria che c’è dietro. 

Quando la comunicazione funziona

Quando sono entrato in carcere avevo 22 anni – sono stato dentro negli anni Settanta: gli anni delle rivolte per i diritti dei detenuti e non solo. La mia pena, inizialmente, doveva essere breve perché ho commesso un piccolo reato, però sono evaso e ho commesso altri crimini all’interno del carcere, accumulando una pena lunga 20 anni.

Vorrei raccontare in particolare la mia esperienza nel Super Carcere dell’Isola ***.

Riparavo le televisioni all’interno di una stanza tutta per me, l’ho fatto per molto tempo ed ero molto felice perché in questo modo svolgevo il mio lavoro. 

Con gli agenti di polizia penitenziaria e i brigadieri è iniziato ad instaurarsi un vero rapporto confidenziale, naturalmente sempre nel rispetto dei ruoli. Dopo tre anni mi portano fuori, per la prima volta, dalle mura del carcere per illustrarmi che avevano bisogno di un tecnico alla centrale elettrica. Non potevo essere più felice: questo per dire che la relazione instaurata tra agente e detenuto è fondamentale per vivere meglio la reclusione e soprattutto ai fini della rieducazione.

La relazione e il dialogo portano alla comprensione e all’esercizio di una pura umanità. 

Non è facile perché le condizioni sono ostative della stessa struttura: va costruito all’interno di essa uno spazio in cui si renda possibile il confronto. 

Finché il sistema penitenziario non cambia struttura e meccanismi di coercizione, fino a quando ci saranno più agenti che educatori all’interno del carcere e il fine sottinteso resterà quello di isolare dalla società le persone che commettono reati e non di reinserirli nella stessa, non ci saranno miglioramenti di alcun tipo. 

Le parole di E