Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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La tortura in carcere – fattore endemico e culturale?

Alessia

Stamattina ascoltavo in treno il podcast “Chiusi dentro” di Massimo Razzi e Gabriele Cruciata prodotto in collaborazione con l’Associazione Antigone nel 2021. Una questione in particolare mi ha stretto le viscere, ancora una volta, quella della tortura nelle carceri italiane.

Era il 2017, appena poco prima che diventassi maggiorenne, di carcere poco conoscevo anche se già molto mi interessava e per la prima volta, con la scuola, sono entrata in un istituto di pena, dalle mura grigie, spesse, infinitamente alte. Ero una “bambinetta” alle prime armi e non avrei mai pensato che effettivamente poi quelle persone che abitavano in quegli spazi fatiscenti, minuscoli, sospesi, sarebbero diventate le persone con le quali oggi mi trovo a confrontarmi spesso (e volentieri!).

 

Era quindi solo il 2017, solo così di recente e dopo appena 30 anni dalla ratifica ONU del ‘97 è stato inserito tra i reati in Italia quello di tortura. Ne avevamo parlato qualche tempo fa anche nell’articolo “È vietata la tortura: il XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione”, ricordando dapprima come il nostro Codice penale definisse la tortura: quella serie di azioni che producono una profonda sofferenza fisica e/o psichica alle persone già prive della propria libertà. Dunque violenze di ogni genere, intimidazioni continue e durature nel tempo considerate – a buona ragione – fattori di degrado per la dignità della persona che le subisce. 

 

Nella puntata del podcast dedicata proprio alla tortura, all’ergastolo ostativo e al 41bis, “Fine pena quando” – che vi invito ad ascoltare –  tra le varie voci che incontriamo c’è anche quella di  Lorenzo Sottile: “un dottorando in diritto pubblico specializzato in carcere e tortura” che ha svolto attività di volontario in varie carceri europee e sudamericane. La tortura negli istituti di pena italiani, dice, è una questione endemica e culturale, a differenza di altri paesi, la stessa formulazione del reato di tortura nel codice penale “si presta a molte critiche”. La vaghezza e la discrezionalità di cui parla Sottile sono la caratteristica peculiare non certo solo di questo tipo di testo calato dall’alto in Italia. Si conferma la presunta tortura, ad esempio,  dopo aver comprovato i traumi a livello psicologico della persona che l’avrebbe subita. Come? In che modo? Con quale criterio? 

«In altri Stati se si fa riferimento alla normativa nazionale ovviamente la regolamentazione è differente, quindi anche un certo tipo di atto o violenza  fisica intenzionale o anche non intenzionale può essere ritenuto un atto di tortura.» – Lorenzo Sottile

Endemico e culturale quindi, una cosa tutta all’italiana – anche se non credo sia proprio così – quella di concepire il carcere come vendetta, di punire e sorvegliare panotticamente le persone già private della loro libertà, di produrre un’istituzione in cui gli attori sociali principali, agent3 e detenut3, sono in relazione tra loro alla “gatto e topo”. Dove il gatto è legittimato a ridurre in poltiglia il topo, a costruire trappole, a farlo vivere nella paranoia, a ricordargli tutti i giorni, in ogni minuto che la sua vita non è più vita. Molti infatti, magari pure in attesa di quella visibilità dei traumi psichici necessaria per confermare l’avvenuto atto di tortura, la vita scelgono di abbandonarla. Siamo oggi a 69. 

 

A fronte delle evidenti problematiche strutturali degli istituti di pena italiani, le risposte sono violente e legittimate! Ce lo conferma ancora una volta la vaghezza con cui si parla del reato di tortura. Si sceglie la via della repressione delle rivolte senza ascoltarne le ragioni. Reprimere, punire e alimentare di conseguenza un ciclo di violenza che no, non si esaurisce nella “discarica sociale” dove nessuno pare voler guardare. 

Non volendo generalizzare, voglio ricordare una cosa secondo me fondamentale per capire meglio che ad essere fallimentare è proprio questo sistema carcere: a morire di carcere non sono solo le persone detenute, sono anche gli agenti che ci lavorano. Questo dovrebbe far riflettere.

La morte di unə, il dolore di tant3

LIVIA

Due settimane fa abbiamo scritto un articolo sul sovraffollamento, il caldo e i suicidi in carcere.

Il tempo di pubblicarlo ed è uscita la notizia di un nuovo suicidio e poi di un altro, e poi di un altro ancora.

Tenere questo conto comincia a diventare difficile sotto tutti i punti di vista, solamente chi dovrebbe farsene carico, lo stato e chi lo rappresenta, sembra non avere difficoltà in merito.

Perché questo è importante sottolineare, il carcere è un’istituzione statale, come le scuole e gli ospedali per intenderci.

Tutt3 dovremmo interrogarci sul perché, invece, è diventato e viene percepito come un mondo a parte dove tutto può succedere.

 

Se già più volte ci siamo soffermat3 sul lato politico e sociale dei numerosi suicidi che stanno avvenendo, ora il nostro pensiero si sofferma sul lato emotivo.

La morte di una persona provoca dolore e spiazzamento, la morte per suicidio provoca una miriade di altre sensazioni e riflessioni.

E dietro la morte di una persona c’è il dolore di tant3.

In questi casi c’è il trauma di chi ritrova un corpo senza più vita, che siano poliziott3 o altr3 detenuti; c’è il dolore e lo stupore di chi fino a qualche ora prima aveva condiviso tempi e spazi ristretti; c’è soprattutto il dolore e la disperazione di chi è fuori e a quel “detenutə suicida” voleva bene.

Dolore al quale si aggiungono rabbia, perché il carcere dovrebbe custodire e non uccidere; rimorso, per non aver capito quanto poteva succedere; rimpianto, per un’ultima carezza mancata.

Le persone detenute che si stanno togliendo la vita sono esseri umani non numeri, proviamo ad immaginare cosa significa la perdita di una persona cara, proviamo a ricordare cosa abbiamo provato quando ci è successo.

 

Purtroppo sappiamo tutt3 che ci saranno altre morti e altre rivolte, in un effetto domino potenzialmente infinito.

Purtroppo sappiamo tutt3 che continuerà il silenzio istituzionale, figlio di un disegno repressivo ampio e ramificato.

Purtroppo sappiamo che anche le nostre sono solo parole, lette da poch3 e condivise da pochissim3, ma continueremo a scrivere, a lavorare, a lottare e indignarci finché avremo fiato.

Suicidi in carcere

Oltre i numeri, le persone

ALESSIA

«Le persone detenute che dall’ inizio dell’anno e fino al 20 giugno 2024 si sono suicidate in carcere sono 44» si legge sul documento pubblicato sul sito del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà “Analisi suicidi in carcere 2024”. 

Seguono poi una serie di dati, di numeri, delle specifiche categorie che fanno pensare di avvicinarci meglio alle loro vite: uomini 42, donne 2, italian𑛂 24,  stranier𑛂 20 e così via. 

Se la guardiamo da una certa prospettiva, può sembrare che la pulsione a incasellare vite burocratizzate svuota di senso e significato le singole esistenze. A guardarle da fuori, attraverso nomi che danno caratteristiche approssimative, ci sembra di conoscerle meglio quelle vite, mentre ci allontaniamo ancora di più dalla realtà. Con questo non si nega l’importanza che – in una società burocratizzata – rappresentano questi dati, queste statistiche. Sui giornali vediamo, con una certa leggerezza, associare le persone che scelgono di porre fine alla propria vita con parole come “rischio record” e se ci sembra normale, se non ci si accappona la pelle allora l’oggettificazione dei corpi è completa, la cosificazione delle vite ha raggiunto i suoi picchi massimi. Ancor di più quando a morire sono le persone detenute.

Quello che ci proponiamo di fare, allora, è prenderci il tempo, percorrere queste perdite, sentirne tutto il peso e le responsabilità collettive di un’istituzione penitenziaria che sì, uccide sistematicamente.

Parlare di suicidio, già di per sè fa crescere un grosso magone. S’impone ai nostri sensi un disorientamento che colpisce quasi più forte di una perdita avvenuta in altri modi, in modi casuali, in quei modi comuni che non riusciamo spesso a spiegarci. Quando la morte è scelta restiamo paralizzati, le domande si moltiplicano, si pensa a tutte le parole che potevano dirsi per evitare quella perdita. Ci si sente responsabili pure quando, dopo tempo, ammettiamo che non si può conoscere fino in fondo il dolore di una persona. Restiamo in queste domande, osserviamo le ricorrenze. Perché una spiegazione forse esiste se i numeri aumentano ferocemente, se le persone recluse nelle carceri scelgono di abbandonare la vita piuttosto che attendere il fine pena.

Quali sono le condizioni di vita negli istituti penitenziari italiani?

Immaginiamo di convivere costretti in 6 mq in 4 persone, con i muri che trasudano il calore, senza poter chiamare o vedere una persona amica nel momento del bisogno e dovendo attendere le risposte per ogni minima richiesta. Avere 3 rotoli di carta igienica al mese, scrivere domandine su domandine per chiedere che so, una visita medica. Aspettare risposte, colloqui, sentenze. Aspettare che qualcuno ti ascolti, ti ricordi che sei un essere umano. Aspettare sempre, senza poter fare nulla per la tua vita, senza poter attivamente scegliere nulla: quando mangiare, quando dormire, quando incontrare chi ami. 

«Ci sono alcune espressioni che gli agenti usano spesso per imporre le loro decisioni. La più usata è “ricordati che qui sei in galera”. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno viene concesso dall’istituzione e quindi bisogna chiedere, usando formule di gentilezza. In una situazione di estrema deprivazione si è sempre costretti a chiedere, e spesso si ottengono risposte negative. Piccole negazioni che non sempre hanno una giustificazione. E allora, la motivazione più convincente si rivela l’invito di non dimenticare mai il luogo dove ci troviamo. Ricordare di essere in galera ci serve ad accettare con rassegnazione ogni forma di privazione. Ho l’impressione che molti agenti credono che non siamo stati condannati abbastanza, che le condanne che ci sono state inflitte siano troppo leggere, e che loro devono in qualche modo fare qualche integrazione alla condanna. È chiaro come in un clima di questo tipo vi possono essere nella quotidiana burocrazia del carcere negligenze, rigidità, omissioni, disfunzioni organizzative che creano disagio e inutili sofferenze, che offendono la dignità delle persone soprattutto perché sono improntate al pregiudizio, a volte anche al razzismo, e sono comportamenti tanto più sgradevoli e offensivi quanto più sono sprovvedute e indifese le persone che ci vanno di mezzo.»  “Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario.” – a cura di Elton Kalica e Simone Santorso

Proprio ieri io, Livia e Sara parlavamo di questa problematica. I suicidi in carcere accendono i riflettori su una situazione completamente degenerata che si cerca di denunciare da tempo e da più fronti. E sembra che a far più scalpore, ad accendere maggiormente i riflettori, non siano bastati i suicidi delle persone recluse: è dovuto accadere che a togliersi la vita siano stati gli stessi agenti penitenziari. Triste pensare che solo allora abbiamo iniziato a renderci conto dell’invivibilità dell’ambiente carcerario, ancora più triste è non riuscire più a sostenere il posto in cui si lavora, tanto da scegliere di abbandonare la vita. 

Indicibile, invisibile, lontano. Il carcere chiuso in sé stesso, completamente isolato e abbandonato, un posto affollato di storie di vita. Come ha sottolineato Livia, il penitenziario è pur sempre un’istituzione dello Stato: cosa succederebbe se all’interno della scuola o dell’università si riscontrasse un alto numero di suicidi tra personale e corpo studentesco? Certo non quello che si fa con il carcere, cioè nulla. 

In un incontro organizzato dall’associazione Parliamo di carcere lo scorso 11 maggio, il garante dei detenuti del Lazio  Stefano Anastasia ha parlato del grande problema dei suicidi in carcere, individuando tra le cause primarie quella del sovraffollamento. Ha notato la macabra ironia nel passaggio di letti a castello a tre, una mossa che concretamente, in termini materiali di “altezza”, facilita di fatto l’impiccagione. 

Ci lasciamo così, con questa amara consapevolezza. Spero che chi poco si interessa a questi argomenti “di nicchia” capisca l’importanza di riflettere su modi alternativi di pensare le pene. La responsabilità di calpestare, stracciare, demolire a mano a mano la dignità e i diritti umani è di tutt𑛂 noi. I suicidi in carcere fanno parte di questa stessa responsabilità.