Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

Tag: violenza di genere

Il tabù mestruale

Ricondividiamo l’articolo di Alessia già edito sulla piattaforma spaziale di FactoryA che vi invitiamo a consultare.

Il tabù mestruale oltre gli stereotipi e oltre le sbarre

Nel 2022 ho sentito per la prima volta parlare della necessità di raccogliere gli assorbenti da donare in carcere alle persone detenute. Ero da poco entrata a far parte della Cooperativa PID Onlus in veste di tirocinante. Sapevo abbastanza poco sia di carcere, sia di mestruazioni. Certo, essendo nata con un utero e socializzata femmina, sulle mestruazioni forse sapevo già qualcosa in più.

 

Dallo scorso anno, grazie al progetto “POSTER. Oltre gli stereotipi” promosso da AIDOS, abbiamo dato vita ad “Assorbire il cambiamento”: una giovanissima iniziativa che ha un obiettivo talmente banale che sembra assurdo definire invece come rivoluzionario: abbattere il tabù delle mestruazioni. E ancora di più, perché non ci basta, far riconoscere alla popolazione civile che quella reclusa, negli spazi ristretti e angusti del mondo che scegliamo ogni giorno di non vedere, vive senza aver garantiti diritti fondamentali. Ad esempio? Le persone con utero in carcere vivono il ciclo mestruale senza un accesso adeguato a servizi e prodotti igienico-sanitari. Per dirla più semplice, in carcere, quando arrivano, arrivano pochi assorbenti e in genere neppure di qualità. Allora ci adoperiamo a parlarne, ma prima sembra doveroso allargare il discorso sul ciclo mestruale, perché quando si pensa al dentro, non si può che non pensare al fuori e viceversa: d’altronde anche se a volte si dimentica, siamo tutt3 parte della stessa società.

 

Il ciclo mestruale

A che serve il ciclo mestruale? Ancora nel XXI secolo, a discapito di tutte le impressionanti scoperte scientifiche, i viaggi interstellari, i cervelli algoritmici, le cure miracolose ecc., non si è trovata una spiegazione reale di quale sia la ragione per cui buona parte della specie umana a intervalli più o meno regolari e per un tempo che copre circa la metà della sua esistenza, sanguina.

 

Cioè sì, sappiamo che è fondamentale per la riproduzione della specie. Perché però ci riproduciamo proprio così non lo sappiamo, in fondo il ciclo non è altro che uno spreco di ovuli distrutti dal mancato concepimento.

 

Sappiamo abbastanza bene come funziona questo processo biologico necessario alla riproduzione. Nell’arco della vita fertile di una persona con utero – in media dai 10/15 anni ai 45/55 – il corpo si prepara ad accogliere una possibile gravidanza attraverso un ciclo di 28 giorni circa che si divide in fasi.

 

  • La fase delle mestruazioni può durare 1-5 giorni, avviene quando l’ovulo del ciclo precedente non viene fecondato, e allora il corpo elimina l’endometrio, lo strato interno dell’utero. Il sangue mestruale è proprio l’endometrio che espelliamo. Non è per nulla piacevole, ma ci si abitua per forza di cose.
  • Nelle due settimane (circa) che seguono le mestruazioni, c’è la fase follicolare: è il momento in cui la ghiandola cerebrale nota come ipofisi secerne l’ormone che dice alle ovaie una cosa tipo “è arrivato il momento di produrre nuovi ovuli”. Solo uno tra questi avrà un posto di rilievo per l’utero che lo investirà di attenzioni, ricostruendone il rivestimento.
  • Poi c’è l’ovulazione. Ah, l’ovulazione! C’è chi l’aspetta come un bambino aspetta la mattina di Natale, chi la evita come si evitavano gli amici medici durante il periodo Covid: forse ci vediamo un altro giorno. Anche questa fase può durare circa 14 giorni ed è appunto il momento in cui il corpo di una persona con utero è più fecondo. Succede che quell’ovulo sistemato e accuratamente rivestito si fa maturo e attraversa la tuba di Falloppio in attesa di uno spermatozoo abbastanza attraente per farsi fecondare.
  • Quando questo non succede, se ci pensiamo quindi la maggioranza delle volte, arriva la fase luteale che dura almeno 15-28 giorni. Il corpo riduce allora la produzione di alcuni ormoni e il rivestimento dell’utero si sfalda: torniamo alla fase delle mestruazioni.

Il rituale del primo menarca

Tutte queste cose le impariamo più o meno a scuola, un po’ forse con le donne della nostra famiglia. Molte cose sul ciclo mestruale io per esempio non le sapevo fino a quando non ho iniziato a lavorare a questo progetto, nonostante “sono diventata signorina” almeno da 15 anni e prevedo di restarci per qualche decennio ancora.

 

Era l’estate della fine delle elementari e già avevo abbastanza ansia di dover affrontare le scuole medie, ricordo che mi preparavo dopo pranzo per andare al mare con mia madre, una sua amica e il figlio che è tutt’ora il mio migliore amico. Avevo il costumino pronto sul letto dei miei genitori, mi sbrigo a spogliarmi per infilarmelo e vedo una chiazza rossastra sulle mutandine. Panico misto a un’euforia che non saprei spiegarmi oggi. Corro da mia madre che al telefono, un po’ stupita dalla scena comica di una bambinetta scioccata con le mutande abbassate e sporche che la guardava con mille emozioni negli occhi, mi dice “vai da papà!”. Lei era impegnata e quindi dovevo farmi aiutare da papà. Questo sì, già ci rende chiaro che mio padre è uno di quegli uomini che si chiede cose tipo “perché ci sono bagni separati per maschi e per femmine?” e che non dice mai cose tipo “non tutti gli uomini…”.

 

Alla fine di questa scenetta simpatica, al mare ci sono andata e fiera sono stata sotto l’ombrellone con il mio assorbente e con i pantaloncini, a guardare il mio amico che triste e confuso mi chiedeva se almeno potevamo giocare a carte anche se non potevo fare il bagno. Quel giorno ricordo di essermi sentita superiore, nel senso di “più grande di te, perché ora io sono una donna”. (Scusa Matt)

 

Abbiamo poi sigillato questo rito di passaggio come da tradizione famigliare con mia madre e mia sorella maggiore, cena fuori e poi cinema: dove mangiare e cosa vedere l’ho scelto io, ero la festeggiata.

Ma festa di cosa?! Per i crampi alla pancia, le fitte ai reni che a volte lasciano senza respiro, i malditesta, il conteggio nevrotico di quanti assorbenti portare per stare in giro tutta la giornata? C’è a chi è andata peggio, per fortuna io posso dirmi tra le persone che hanno un flusso abbastanza regolare, fastidi e dolori il più delle volte non debilitanti, la possibilità economica di comprare gli assorbenti, i tamponi o le coppette che voglio.

Il sangue mestruale è un tabù

Quel sentirmi superiore al mio amico durato una mezza giornata era forse una rivincita metaforica perché nel mondo in cui abito, avrei scoperto poi, il ciclo mestruale è vissuto come un disagio, è un tabù da sussurrare, un peso da portare in silenzio, un odore sgradevole da celare; e aggiungerei, è solo uno dei millemila modi con cui le persone socializzate femmine sono state vittime e fautrici di un sistema dualistico che si basa sulla dominazione di un gruppo sull’altro. Detto più semplicemente, anche il tabù mestruale è prodotto della cultura patriarcale. Per questo, parlarne mi sembra banale e al tempo stesso rivoluzionario.

 

Pensiamo alla differenza con cui ci approcciamo socialmente al fluido riproduttivo maschile. Lo sperma viene “celebrato” e spesso, come ci ricorda Elise Thiébaut, ci viene detto che può avere effetti benefici per la salute di chi lo ingerisce; il sangue mestruale fa schifo. Il sangue può farci ribrezzo, eppure continuiamo a spargerlo per le città nei conflitti di potere, continuiamo a cercarlo nei film e nelle serie o nei videogiochi violenti. Ma quello mestruale è un tabù, nonostante invece che portare morte, doni la vita.

 

La giornalista che ha scritto l’ironico e provocatorio testo che sto leggendo proprio in questi giorni “Questo è il mio sangue. Manifesto contro il tabù mestruale”  ha detto:

[…] il sangue mestruale, afferma oggi la medicina moderna, non ha una funzione precisa quando lascia l’endometrio: è semplicemente il segno di un insuccesso riproduttivo.

Insuccesso anche dal punto di vista biologico, non ci danno tregua! Elise Thiébaut collega questo tipo di informazione che ci viene narrata a un sentimento indotto di vergogna, spiegandoci che

[…] secondo lo psicoanalista Serge Tisseron la vergogna gioca un ruolo socialmente importante: «A differenza del pudore, che non incide sull’autostima, e del senso di colpa, che comporta anche l’angoscia di perdere l’affetto dei propri cari, in più la vergogna minaccia la certezza di continuare a far parte del gruppo». Poiché disorienta ed emargina, la vergogna è – precisa Tisseron – «l’arma privilegiata del dominio su tutti coloro che sono in condizioni di fragilità».

Vivere il ciclo mestruale in carcere

Ed eccoci al dunque. Come vivono le persone con utero il ciclo mestruale in carcere? Una domanda complessa a cui non basta un trafiletto di un articolo web per rispondere. Proviamo a dare qualche informazione base.

La popolazione detenuta femminile rappresenta il 4% della popolazione detenuta italiana totale, ma affronta problematiche legate a un sistema penitenziario pensato al maschile, senza considerare le diverse identità di genere che lo abitano. Gli standard internazionali delle Nazioni Unite (Regole di Bangkok, 2010) promuovono la distribuzione gratuita di assorbenti nelle carceri, ma in Italia l’Amministrazione penitenziaria non garantisce quantità sufficienti né la possibilità di scegliere il tipo di prodotto.

 

Chi lavora e/o ha una rete sociale esterna a sostegno può acquistare gli assorbenti al “sopravvitto”, una sorta di negozio interno al carcere. Chi non ha risorse deve accontentarsi della fornitura minima: uno o due pacchi al mese.

Lascio che a parlare siano alcune testimonianze raccolte durante la scorsa annualità del progetto “Assorbire il cambiamento”, io ho già parlato troppo, come il mio solito.

 

Quando entri in carcere ti viene assegnata una cella, un letto, se nella cella ci sono più persone e ti viene data una “dotazione”: le lenzuola, una specie di asciugamano, un asciughino per i piatti, bicchieri e posate di plastica e una saponetta. Poi, non è detto che te li diano all’inizio, ma comunque puoi chiedere un pacco di assorbenti al mese. Ovviamente sono indecenti come assorbenti, come qualità e soprattutto sono pochi.

Maria

 

Vi dico che prima che uscissi dalla sezione a settembre, gli assorbenti, i vestiti, i prodotti di igiene in generale venivano consegnati solo alle nuove giunte, alle altre no. E se sapevano, a maggior ragione che eri lavorante, ti obiettavano la cosa perché dicevano che non potevi prendere una cosa che toglievi ad altre che non lavoravano e che non potevano permettersi di comprarla. Quindi i materiali rimangono là anche per un nuovo arresto, una nuova giunta. La formula era questa e s’è mantenuta diciamo fino a poco fa, poi mo’ non lo so.

Rosaria

 

Quando sono entrata avevo il ciclo ma non mi hanno dato gli assorbenti. Ho preso il lenzuolo e l’ho strappato poi ho fatto così e via.

-Elena

 

In carcere funziona così, ci si arrangia con quel che si trova. Ti tieni l’assorbente fino a quando regge perché sai che ne hai pochi a disposizione e non sai quando arriveranno altri. Anche quando è estate e il materiale, con il sudore e il sangue in eccesso irrita la pelle.

 

E allora gli assorbenti in carcere servono per restituire alle persone recluse una dignità negata. Per ricordare loro la possibilità di scegliere come gestire il proprio ciclo. Servono perché a fronte delle difficoltà strutturali che devono affrontare nel quotidiano dell’istituzione totale carceraria, almeno non devono pensare a ingegnarsi per permettersi di non sporcarsi durante i giorni delle mestruazioni. E servono per dire che siamo divers3, il ciclo mestruale esiste e vogliamo che i diritti mestruali siano rispettati.

 

Forse non ho stuzzicato abbastanza la tua curiosità, forse sì. In ogni caso, se vuoi far parte del cambiamento ricorda che la raccolta assorbenti per il carcere del PID finisce il 28 maggio. Come puoi partecipare? Qui trovi tutte le informazioni necessarie.

Libere di Scegliere: il Progetto PRIN PHOENIX

Percorsi di rinascita per donne e bambin3 in condizioni di marginalità

TIZIANA
Il 14 febbraio 2025, presso l’Università Roma Tre, si è tenuto il convegno Libere di Scegliere, un evento di grande rilievo che ha presentato i primi risultati della ricerca condotta nell’ambito del progetto PRIN PHOENIX. Questo studio, finanziato come Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale, vede la collaborazione delle Università di Firenze, Roma Tre e Foggia, con l’obiettivo di indagare e contrastare la marginalità femminile.

Il cuore della ricerca: comprendere e supportare le donne in condizioni di vulnerabilità

Le relatrici, coordinatrici del lavoro di ricerca, hanno condiviso esperienze profonde ed emozionanti emerse dall’incontro con donne ospitate in case di accoglienza o rifugio. Attraverso interviste dirette, si è evidenziato come l’interazione con queste persone abbia trasformato non solo il loro percorso di ricerca, ma anche il loro approccio emotivo e relazionale.

Il progetto PRIN PHOENIX si propone di creare reti di accoglienza efficaci, capaci di contrastare il senso di solitudine e abbandono interiorizzato da chi ha vissuto maltrattamenti e violenze. Un aspetto chiave emerso durante il convegno è stato il ruolo del lavoro e dell’inserimento professionale come strumenti per restituire dignità e autonomia alle donne che vivono in condizioni di marginalità.

La Genitorialità consapevole e il percorso di sorellanza

Un punto di particolare interesse è stato il lavoro con madri che hanno subito violenza, mettendo in luce l’importanza di un percorso di acquisizione di una genitorialità consapevole e responsabile. La violenza subita, infatti, influisce non solo sulla donna, ma anche sulle sue risorse per crescere i/le propr3 figl3 in un ambiente sicuro.

Le interviste sono state vissute come un momento di sorellanza, un’occasione in cui le persone hanno potuto trovare solidarietà, ascolto e consapevolezza reciproca. Questo ha sottolineato il ruolo cruciale delle ricercatrici non solo come studiose, ma anche come figure di supporto e vicinanza.

La formazione del personale e la riprogettazione dei servizi

Un altro aspetto fondamentale emerso dal convegno è stato il nodo della formazione del personale che opera nei centri di accoglienza. Il progetto mira a individuare le competenze essenziali per chi lavora con donne vulnerabili, fornendo strumenti adeguati per affrontare le sfide della marginalità femminile.

L’area di lavoro privilegiata è stata l’intervista e la raccolta di dati attraverso un percorso esclusivamente orale. Dai risultati è emersa la necessità di ripensare e ampliare i servizi dedicati, non solo per sostenere le donne nel percorso di consapevolezza della loro condizione, ma anche per accompagnarle verso l’emancipazione.

Donne e detenzione: oltre lo stigma

Un tema particolarmente delicato affrontato nel convegno è stato quello della detenzione femminile. Il carcere, oltre alla pena, porta con sé lo stigma della donna colpevole, aggravato dal senso di abbandono che le madri detenute provano nei confronti dei/lle figl3.

Anche in questo contesto emerge la necessità di una nuova progettazione educativa, che permetta alle donne di ripensare alle proprie aspirazioni e di acquisire consapevolezza della loro condizione. Il concetto di empowerment diventa essenziale per fornire strumenti di capacitazione che consentano alle donne di ricostruire la propria vita, dentro e fuori dal carcere.

Guardare al futuro: libere di scegliere

Il convegno ha posto l’accento sull’importanza di lavorare per il dopo, per il momento in cui queste donne dovranno riprendere in mano la propria vita. L’uso delle abilità apprese, il supporto delle reti sociali e l’inserimento lavorativo rappresentano le chiavi per una vera rinascita.

Il progetto PRIN PHOENIX non si limita a un’analisi della marginalità, ma si propone come un percorso concreto di riscatto, dando voce a chi troppo spesso viene lasciato ai margini e offrendo strumenti per una reale trasformazione personale e sociale.

Come il patriarcato influisce sulle vite delle persone detenute negli istituti femminili

La popolazione detenuta femminile in Italia rappresenta circa il 4 per cento del totale, più precisamente, al 31 marzo 2024, come rilevato dall’associazione Antigone, le donne recluse erano 2.619. Un numero basso se messo a confronto con il totale della popolazione detenuta (61.049 persone recluse).

 

Sappiamo che molta attenzione è data alle persone detenute negli istituti femminili in rapporto alla loro condizione di madri. Che se da un lato rappresenta una risposta necessaria – ma non sufficiente – alla paradossale esperienza di molte bambine e bambini che si trovano a muovere i primi passi nell’ambiente carcerario; dall’altra rispecchia una società che ritiene centrale il diritto di una donna di essere madre a discapito del diritto di una persone di essere e autodeterminarsi come vuole. Vero anche che con il nuovo Ddl Sicurezza, questa gentile accortezza nei confronti delle donne incinte, sembra esser messa in dubbio: proprio alcuni giorni fa infatti la società civile si è espressa contro l’incarceramento delle donne incinte presso il Senato della Repubblica (qui il link). 

Oltre alle madri, quando si parla di “donne” nell’Ordinamento Penitenziario?  

Sono principalmente due gli articoli dell’Ordinamento penitenziario specifici per la regolamentazione delle persone detenute negli istituti femminili. 

  • Articolo 14: “Assegnazione, raggruppamento e categorie dei detenuti e degli internati”

“Il numero dei detenuti e degli internati negli istituti e nelle sezioni deve essere limitato e, comunque, tale da favorire l’individualizzazione del trattamento.

L’assegnazione dei condannati e degli internati ai singoli istituti e il raggruppamento nelle sezioni di ciascun istituto sono disposti con particolare riguardo alla possibilità di procedere ad un trattamento rieducativo comune e all’esigenza di evitare influenze nocive reciproche. Per le assegnazioni sono, inoltre, applicati di norma i criteri di cui al primo ed al secondo comma dell’ articolo 42 .

É assicurata la separazione degli imputati dai condannati e internati, dei giovani al disotto dei venticinque anni dagli adulti, dei condannati dagli internati e dei condannati all’arresto dai condannati alla reclusione.

É consentita, in particolari circostanze, l’ammissione di detenuti e di internati ad attività organizzate per categorie diverse da quelle di appartenenza.

Le donne sono ospitate in istituti separati o in apposite sezioni di istituto.”

  • Articolo 42-bis: “Traduzioni”

“Sono traduzioni tutte le attività di accompagnamento coattivo, da un luogo ad un altro, di soggetti detenuti, internati, fermati, arrestati o comunque in condizione di restrizione della libertà personale.

Le traduzioni dei detenuti e degli internati adulti sono eseguite, nel tempo più breve possibile, dal corpo di polizia penitenziaria, con le modalità stabilite dalle leggi e dai regolamenti e, se trattasi di donne, con l’assistenza di personale femminile. […]”

 

Se nell’Ordinamento penitenziario l’attenzione nei confronti delle specifiche esigenze femminili è scarsa, qualcosa migliora con il Regolamento di esecuzione del 2000.

 

  • L’articolo 8  sull’igiene personale
  • L’articolo 9 sul vestiario e il corredo
  • L’articolo 7 sulla presenza del bidet in cella 

 

Il paradosso di cui parlano Franca Garreffa e Daniela Turco nel focus “Le donne nei Poli universitari penitenziari: ostacoli e prospettive di sviluppo” (Primo Rapporto sulle donne detenute di Antigone) riguarda una doppia tendendenza opposta tra il fuori e il dentro: da un lato, c’è la lotta contro l’abbattimento delle differenze tra i generi, dall’altra il mettere in evidenza le stesse diversità nell’ambito dell’esigenze detentive femminili

 

Un paradosso che potremmo complessificare, osservando che l’abbattimento delle differenze non nega le diverse esigenze e ne anzi mette in risalto le problematiche legate al mancato riconoscimento. Non è dunque un problema di per sé la differenza tra i sessi e i generi, ma il diverso trattamento che viene riservato alla componente maschile, la rigidità dei ruoli sociali assegnati, la contrapposizione agonistica tra un noi e un loro e i rapporti di potere che essa genera e che caratterizzano la società contemporanea; sia libera che reclusa, perché, ricordiamolo, apparteniamo tutt3 alla stessa. 

Si tratta di quel concetto di equità che dovrebbe essere alla base di uno stato che si dice democratico: non uguale per tutte le persone ma uguale in base alle specifiche condizioni delle persone prese in considerazione. 

Istruzione, formazione e opportunità per le persone detenute negli istituti femminili

Pubblicato su Ristretti Orizzonti, l’articolo di Manuela D’Argenio di novembre 2024 per tgcom24.mediaset.it, è introdotto così:

«Le sezioni femminili restano inadeguate, le attività professionali sono poco variegate, l’accesso agli studi non è uguale per tutti: la discriminazione di genere, di fatto, è rimasta immutata. Il carcere come istituzione totale è una struttura pensata per uomini in cui si riscontra, anche nei documenti ministeriali, un’incapacità di rielaborarlo al femminile». (Qui il link)

D’Argenio evidenzia i numerosi problemi esistenti all’interno del sistema carcerario legati alla discriminazione di genere. Le persone detenute negli istituti femminili spesso sono sottoposte a stereotipi e aspettative tradizionali legate al “comportamento femminile”. Infatti vengono introdotte ad attività come il ricamo e l’uncinetto, in contrasto con la maggior offerta di attività prevista per la componente maschile. Un’ulteriore tendenza di differenziazione riguarda l’accesso a opportunità lavorative e formative: esiste infatti un’alta disparità nell’accesso agli studi universitari tra popolazione carceraria maschile e femminile. 

 

Sembra chiaro che il dato numerico inferiore delle detenute e la loro distribuzione nelle sezioni femminili di carceri maschili contribuiscono – insieme alle suddette condizioni stereotipate con cui vengono pensate attività e servizi nell’istituzione penitenziaria – a una visibile marginalizzazione e a una scarsità di percorsi di reinserimento sociale adeguati.

Corpi ristretti e sensi di colpa

Sono meno persone sì, ma sono pure meno strutture. E quindi, se il sovraffollamento carcerario ad oggi è pari al 132% (qui il link), sembra che siamo proprio le carceri femminili a risentirne di più. 

Le persone detenute negli istituti femminili si trovano a vivere ammassate l’un l’altra e per di più in strutture pensate per la categoria di genere maschile, il che contribuisce a una mancanza di supporto e di risorse dedicate.

La discriminazione di genere in carcere è radicata nella concezione stessa della pena e nella struttura dell’istituzione che grava nell’emergenza continua data l’assenza di riflessione sulle condizioni di vita interne.

Spesso inoltre è presente quel tipico assorbimento dello “spirito abnegante” caratterizzante il ruolo di accudimento e cura assegnato culturalmente alle persone con utero ancor prima della nascita che si esplicita nel senso di colpa nei confronti di figli, compagni, padri e mariti lasciati fuori. Il senso di colpa può tradursi in atteggiamenti di sottomissione, atti di autolesionismo, suicidi o uso prolungato di psicofarmaci: tutti fattori che sembrano essere più frequenti tra la popolazione detenuta femminile rispetto alla maschile. 

 

Forse la bassa percentuale delle presenze femminili in carcere è uno dei motivi per cui sembra più difficile per le persone di genere femminile in carcere accedere a quei benefici – come corsi di professionalizzazione o universitari – maggiormente preposti per la componente carceraria maschile. Forse, invece, sono gli aspetti di una cultura patriarcale e omotransfobica che sono duri a morire e che condizionano la vita e i rapporti tra i generi sia fuori che dentro il carcere. 

O forse, entrambe le cose. 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip mestruali e assorbenti lavabili. Leggi di più qui

Un cartone animato Disney che spiega le mestruazioni: The story of menstruation (1946)

Siamo 1946 in America: la Disney viene finanziata e commissionata dalla International Cello-Cotton Company – una nota azienda produttrice di assorbenti – a dar vita a un cortometraggio che spiegava alle bambine e alle ragazze le mestruazioni, “The Story of Menstruation”. Per garantire l’accuratezza scientifica e ottenere il supporto di medici e infermieri scolastici, fu coinvolto un ginecologo come consulente nella produzione.

Il corto “The Story of Menstruation” dura dieci minuti e, con la voce di Gloria Blondell, spiega con precisione il ciclo mestruale, pur mantenendo un tono distaccato e senza essere troppo espliciti. Possiamo pensare che per i tempi, il corto rappresenti una una novità educativa all’avanguardia, ma proprio contestualizzando il periodo storico in cui è stato prodotto, non stupisce che “The Story of Menstruation” presenta degli aspetti critici. Se fino a poco tempo fa il ciclo nelle pubblicità era simpaticamente colorato di blu, il sangue mestruale nel cartone Disney è rappresentato in bianco e nelle animazioni tra le parti dell’apparato genitale femminile risulta assente all’appello la vulva

 

Per essere pensato nel 1946, “The Story of Menstruation” è stato uno strumento pedagogico importante, inoltre non si possono negare almeno due aspetti sinceramente apprezzabili: 

  • Viene smentito il falso mito del “non ci si lava con il ciclo” invitando il pubblico a non smettere di fare il bagno durante il ciclo mestruale ma a fare attenzione alla temperatura dell’acqua, che non sia né bollente, né gelata. 
  • Vengono spiegati la crescita e i cambiamenti del corpo, specificando che questi processi generano le diversità tra i corpi delle persone in modo rassicurante.  

 

La storia è semplice e racconta non pochi stereotipi di genere: una bambina in fasce viene seguita nel corso della sua crescita fino al giorno in cui diventerà moglie e mamma a sua volta di una bambina. Il film presenta le mestruazioni come «una parte del piano eterno della natura per trasmettere il dono della vita».

Una delle prime lampanti problematiche è la divisione di genere nelle classi durante la visione del cortometraggio. Dai commenti su Youtube sotto il video, leggiamo ad esempio:

Noi bambini abbiamo visto questo film nella quinta elementare negli anni ’60. I genitori dovevano firmare un’autorizzazione per permetterci di vederlo. All’epoca mi sorprese davvero quando ci dissero che avremmo visto il film. In classe? Durante l’ora di ginnastica? Non ricordo, ma i ragazzi non furono informati perché le cose erano diverse allora e tutto era molto segreto.

 

Si spiega alle bambine americane degli anni Cinquanta e Sessanta che bisogna cercare di non abbattersi per la stanchezza, di non lasciare che il ciclo interrompa le attività quotidiane: come ad esempio, si vede bene nelle immagini, quella di pulire casa

Il cortometraggio Disney inoltre invita il pubblico a non piangersi addosso, a prendere quei giorni con filosofia, così che sia possibile passarli con un bel sorriso in faccia e senza sbalzi d’umore. Anche perché, nonostante come ci sentiamo, bisogna vivere con le persone e con noi stesse

 

Alcune affermazioni o immagini fanno sorridere, altre ci fanno salire l’amaro in bocca. Non tanto perché non comprendiamo che “The Story of Menstruation” è un cartone animato del 1946 e rispecchia l’immagine dei rapporti di genere dell’epoca; ma perché nel 2025 oltre ad esserci persone che negano l’esistenza di una cultura patriarcale e omotransfobica, ci sono fondi stanziati per la «formazione degli insegnanti su fertilità maschile e femminile, con un focus sulla prevenzione dell’infertilità». Un’educazione “sessuo-affettiva” nulla, che probabilmente sarà più simile al video della Disney del ‘46 che non a quello per cui ci si batte quotidianamente: un’educazione al consenso, alla parità dei generi plurimi, alla libertà di autodeterminazione, al rapportarsi con una sessualità sicura e libera.

In ogni caso, se vi abbiamo incuriosito qui lasciamo il link del cortometraggio: “The Story of Menstruation”.

 

Quando leggiamo “menstruation” può sembrarci strano la presenza della parola “men” a nominare uno degli aspetti caratterizzanti della vita biologica del femminile. Potremmo perfino infastidirci della cosa, ma per quanto possa sembrare ironico, è solo una coincidenza dovuta all’etimologia di queste parole. Sulla piattaforma Quora un utente, Dhaval Rathod ha spiegato:

La parola “man” ha una radice che affonda fino al sanscrito “manu”, che secondo la mitologia induista è considerato il primo uomo. Le parole relative a “menstruation” derivano dalle radici latine “mensis” (mese) e “menstrua” (mensile). La stessa radice è anche responsabile delle parole “semester” [sex (sei) + mensis (mese)] e “trimester” [tri (tre) + mensis (mese)]. La parola latina “mensis” ci porta ancora più in profondità a una parola greca “mēn”, che significa anch’essa “mese”. Queste parole che rappresentano un periodo di un mese sono associate all’apparizione della full “moon” (greco: “mēnē”). La nostra “moon” ha anche dato origine alle parole “monday” e “month”. 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e assorbenti lavabili. Leggi di più qui.

Un carcere che “protegge” le donne – Delitto d’onore in Giordania

Nel libro “Donne violate. Forme della violenza nelle tradizioni giuridiche e religiose tra Medio Oriente e Sud Asia” Marta Tarantino affronta il rapporta tra cultura e legge, mostrando come gli intrecci che hanno intessuto i ruoli di genere nell’area mediorientale della Giordania influiscono sulla legislazione del Paese. 

Gerarchia famigliare e ritualità identitarie

L’autrice ricostruisce dapprima il corpus dei valori etico-morali che caratterizza il contesto arabo-islamico del regno Hashemita di Giordania, partendo dall’esplicitazione del duplice ruolo che ha la famiglia. Da un lato, essa assolve alla funzione privata di definizione e costruzione identitaria dell’individuo; dall’altro si fa strumento politico-religioso attraverso il quale la comunità dei credenti continua a esistere nella storia. 

Come uno specchio della società, la famiglia mediorientale è organizzata verticalmente secondo gerarchie e regolata da valori patriarcali. Nella vita famigliare di un bambino o di una bambina inizia la socializzazione ai modelli del femminile e del maschile attraverso lo scandirsi dei rapporti genitoriali dove la madre detiene un potere “temporaneo” sul figlio. Dopo i primi sette-nove anni di vita il bambino compirà quel rito di passaggio della circoncisione che segnerà il suo giungere, dalla maschilità – ossia la condizione biologica – alla mascolinità – il ruolo di genere. Se nei primi anni è stata la madre a curarsi del figlio, sarà poi l’autoritario e distaccato padre a dover guidare il bambino maschio. La bambina invece continuerà ad essere socializzata dalla madre e dalle altre donne di casa: 

«Per le donne invece, la lingua araba utilizza il termine unūah tanto con significato di “essere femmina” o “essere di genere femminile” quanto con quello di “essere molle”, sottolineando con quest’ultimo una sfumatura spregiativa, una semplificazione atta a ribadire il concetto patriarcale di subordinazione e debolezza dell’universo femminile rispetto a quello maschile.» M. Tarantino“La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Una costruzione identitaria che segna una duplice costrizione, una duplice sofferenza: se gli uomini dovranno onorare il proprio ruolo machista e violento, le donne sentiranno il peso di una sessualità di cui hanno l’onere di custodire. Queste costruzioni identitarie, incarnate simbolicamente nella virilità dell’uno e nella verginità dell’altra, s’incontrano nel vincolo del matrimonio, l’unico luogo in cui l’atto sessuale viene legittimato. E a quel punto, la rottura dell’imene della donna durante la prima notte di nozze, rappresenterà non solo l’onore di lei ma quella dell’uomo, della famiglia e di tutta la comunità.  

Delitto d’onore in Giordania

In Giordania la popolazione è caratterizzata da un substrato tribale che include sia arabi musulmani che cristiani ortodossi, i quali di solito appartengono a tribù di natura nomade, semi-nomade o sedentaria. Questa struttura contribuisce a una rete complessa di pratiche e consuetudini che, in molti casi, si sovrappongono o sostituiscono le leggi ufficiali dello Stato, creando una coesistenza di poteri che risale alla nascita dello Stato giordano moderno.

È proprio grazie a questa eredità culturale che la protezione dell’onore e della reputazione si è evoluta nel tempo, assumendo forme di violenza che sono moralmente accettate e normalizzate dalla comunità, in particolare nei confronti di chi mina l’onore e la dignità della famiglia.

Il codice di comportamento non scritto riservato alle donne è necessario al mantenimento dell’onore della famiglia, il quale gli uomini hanno il compito di proteggere e mantenere e che una volta perso, non può essere ripristinato.

Il delitto d’onore può essere letto come un reato culturalmente orientato e nasce proprio da questa responsabilità tutta al femminile dell’onore rappresentativo dell’uomo. La condotta vuole che la donna sia pudica e riservata per tutta la sua vita e in ogni ambiente che abita. Le cause del delitto d’onore possono essere di vario tipo: dalla conversazione di una donna con uno sconosciuto in un posto pubblico, all’assenza prolungata da casa; dal rifiuto di un matrimonio combinato, all’arrivo di una gravidanza illegittima se pure consumata da una violenza. 

«I delitti seguono poi uno schema che si ripete in gran parte dei casi: in una prima fase vi è la presa di coscienza da parte della famiglia del “disonore”, spesso oggetto di discussione di vere e proprie riunioni familiari, seguita dalla designazione di chi dovrà portare a compimento il delitto. Generalmente, l’esecutore materiale dell’omicidio è il fratello della vittima, sebbene all’azione possano concorrere tutti i parenti maschi più prossimi (il padre, lo zio paterno o il cugino), con impiego di armi di vario tipo fra cui coltelli, pistole o veleno nel cibo. Trattandosi di delitti che solitamente avvengono in aree lontane dai grandi centri abitati, spesso i corpi vengono abbandonati in zone remote, rendendone più difficile la scoperta, l’identificazione e complicando la successiva indagine.» M. Tarantino – “La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Legittimare un carcere che “protegge” le donne in Giordania

Nel 1992 la Giordania firma la Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination Against Women (CEDAW) che diventa effettiva nel 2007. Nel 2008 il Parlamento pubblica il Protection from Family Violence Law con lo scopo dichiarato di voler coadiuvare la riconciliazione fra i membri delle famiglie in conflitto. Nonostante le intenzioni, il testo resta poco chiaro e polveroso su alcune questioni fondamentali, come la stessa definizione di violenza che viene relegata nell’ambiente domestico. Il delitto d’onore resta di fatto facilitato dal codice penale, da letture misogine della religione musulmana e dalla forza delle consuetudini tradizionali. L’articolo 340 del Codice penale giordano fino al 2001 rendeva possibile la completa assoluzione degli accusati e nonostante le modifiche del testo tese a rendere le disposizioni più neutre, a oggi si recitano i benefici delle attenuanti per un uomo che dopo aver scoperto in ”flagrante delicto” sua moglie o parente la ferisca o uccida.  

«Nessuna donna è detenuta senza motivo, pertanto può avvenire (che essa venga detenuta) per proteggere la sua vita futura, l’eventualità di una disgrazia sociale.» – ibidem, cit. intervista di Amnesty International al Direttore del Dipartimento per i Diritti umani del Ministero degli Interni giordano (2020)

Così accade che per “salvare” la vita a donne che hanno macchiato l’onore della propria famiglia – magari per essere state stuprate e poi aver rifiutato il matrimonio con il carnefice, per essere fuggite via, per avere il grembo il frutto della violenza – queste vengono messe in carcere. In che senso?

Dopo essere stata costretta a sottoporsi a test medici “sulla verginità”, dopo essersi salvata dalla famiglia, dopo aver tentato invano di denunciare alle autorità la sua condizione di pericolo, per effetto del Crime Prevention Act del 1954 può succedere che una donna venga detenuta a “scopo tutelare”. 

  • Nel 2013 la maggioranza della popolazione detenuta femminile si trova nel carcere dei Juweida: vivono in condizioni precarie, vittime di abusi fisici e psicologici. Donne giovani, senza figli né marito, poco abbienti, donne che hanno subito violenze in ambito domestico, che sono state abbandonate dalle famiglie dopo l’incarcerazione. Per entrare e per uscire è necessaria la decisione del governatore locale che però non può acconsentire alla scarcerazione se non è sicuro che la famiglia non abbia intenzioni punitive. Così alcune ricorrono ai matrimoni combinati, altre vanno incontro alla libertà con una sentenza di morte appena fuori le porte del carcere.
  • Nel 2017 inizia ad accendersi il dibattito pubblico intorno alle questioni relative al delitto d’onore, i primi passi verso un’inversione di marcia vengono mossi grazie alle cronache giornalistiche, al lavoro delle associazioni e a una parte moderata del mondo islamico che guardano al problema riconoscendone le radici culturali.
  • Nel 2018 è istituita la casa-rifugio Dar Amneh per permettere alle donne in detenzione amministrativa di avere accesso a servizi, opportunità e assistenza per il reinserimento nella società. Tutti fattori negati all’interno del carcere di Juweida.

Il governo Hashemita sembra aver mostrato così un doppio atteggiamento che da un lato è caratterizzato dalla volontà di rendersi partecipe di un processo di riforma, dall’altro –  impedendo il trasferimento delle donne dal carcere alla casa-rifugio – si fa portatore di un potere arbitrario sulle donne tentando di convincerle a “tornare sotto la protezione maschile”.

«La difficoltà nel debellare il fenomeno è dovuta alla refrattarietà dell’intero sistema valutativo dei reati, il quale esprime, attraverso i vari organismi coinvolti, forme reiterate di male guardianship, partendo dagli uomini della famiglia per giungere ai medici incaricati di sottoporre le donne a test di verginità e gravidanza, al personale carcerario e in ultimo ai giudici chiamati a esprimersi nei processi.» M. Tarantino – “La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. Leggi di più qui.

Reato universale – altri modi di dire alle donne come gestire il proprio corpo

Presupponendo qualche potere trascendentale sui corpi e sulle vite delle persone con utero, ecco che in Italia, la tanto attesa mano di ferro portatrice di ordine e sicurezza – schierata contro “l’ideologia gender” in nome di un caotico ginepraio che sarebbero “i valori de ‘na volta” – arriva a definire i termini per i quali la gestazione per altri sarebbe un reato universale.

Fa un po’ ridere il pensare le cose in termini universalistici quando, perfino in questo paese di conservatori, esiste una buona parte della popolazione che grida l’esigenza di uno sguardo intersezionale sulle cose del mondo.

NB. Guardare all’intersezionalità è una pratica promossa dai movimenti femministi e transfemministi che presuppone la consapevolezza della complessità della realtà, costruita su relazioni di potere e di subordinazione che producono le marginalità le quali hanno TUTTE necessità di essere considerate, ascoltate, viste, ecc. Questo, molto in breve, vi rimando alle parole di Sabrina Marchetti per una riflessione:

«Nel momento in cui ci accingiamo a parlare di “diversità”, siamo immediatamente obbligati a confrontarci col fatto che di “diversità”, ogni persona, rispetto alle altre e rispetto alla società nel suo complesso, non ne ha una sola.»

Fa un po’ meno ridere la pretesa dello stato di diritto di criminalizzare bambine, bambini, genitori e intere famiglie che hanno la loro quotidianità, esistono e continueranno a farlo nonostante il reato sia da mercoledì ufficiale. E per quelli che verranno?

Che poi c’è da ingegnarsi per capire quale problema rappresenterebbe per l’Italia se una persona mette a disposizione la propria capacità gestazionale per un’altra che non può ma vuole avere figli o figlie. Reato di cosa? Sarà forse che siamo spaventati dalla complessità del mondo? Notiziona, complesso lo è sempre stato il mondo.

«La frammentazione dei ruoli genitoriali accettati della paternità e della maternità (Parkin, 1997), che deriva dall’applicazione delle tecniche di riproduzione assistita, ha spinto in avanti la distinzione, ben nota nell’antropologia classica, tra genitore-genitrice e padre-madre sociali con la filiazione materna che può sdoppiarsi nelle sue due componenti costitutive, darsi separatamente come una maternità genetica oppure come una maternità gestante. Fino a cinque persone possono risultare coinvolte, nel caso in cui entrambi gli aspiranti genitori (genitori di intenzione) siano sostituiti nelle loro funzioni genetico-procreative da un donatore di spermatozoi, da una donatrice di ovuli e da una gestante incaricata di portare avanti la gravidanza, nella cosiddetta surrogacy gestazionale (gestational surrogacy).» – Antropologia delle famiglie contemporanee, Simonetta Grilli

Fa ancora più ridere l’ipocrisia insita nelle pratiche di governo dei corpi delle donne che le investe di un duplice fardello: da un lato macchine riproduttrici di lindi e pinti nuovi cittadini, dall’altra criminali che utilizzano le stesse funzioni biologiche richieste dalla società per essere considerate a tutti gli effetti delle “vere donne” per permettere ad altre vite di colorarsi con l’arrivo di nuove vite. Cioè detta molto semplicemente: le persone che vogliono figli ma non possono averli (per le motivazioni più disparate) continuano a non poterli avere MA le persone che non vogliono figli ma restano incinte (per le motivazioni più disparate) non possono interrompere la gravidanza. È caotico? Non ha molto senso? Sì, ma a quanto pare è così. E buona pace alla libertà di autodeterminarsi in un paese libero.

Oltre la solita polemica, cosa s’intende per reato universale?

Mercoledì 16 ottobre la proposta di legge FDI viene approvata. Ebbene la gestazione per altri, chiamata spesso e impropriamente “utero in affitto”, diventa reato universale: ergo, sarà perseguibile in Italia chi farà ricorso alla GPA anche se all’estero.

«Anche se ci sono forti dubbi sulla sua applicabilità, secondo diversi giuristi la legge avrà comunque ricadute concrete sulla vita delle persone che vorranno far ricorso alla GPA: potrebbero andare infatti incontro a un processo, accusati di un reato che comporta il carcere o una multa elevata.» – Il Post

È davvero frustrante dover leggere queste cose, pensarle reali, dover ribadire ancora una volta la libertà personale di scegliere come condurre la propria vita. Perché di questo parliamo, di vita.

Una vita donata diventa reato. 

Ottava – ricordi di un’operatrice in carcere

Ormai più di 15 anni fa Laura entrava in carcere come operatrice e come donna in una delle sezioni più difficili da affrontare, contenitrice delle persone che avevano commesso reati di violenza sessuale e di pedofilia, o di chi dopo aver collaborato con le forze dell’ordine doveva essere protetto dal resto della popolazione detenuta. Le sue parole quantomai attuali ci fanno ragionare su questioni fondamentali. La prima che emerge è proprio il ruolo di educatorɜ, volontarɜ, operatorɜ in carcere, del peso che portano con loro, tutte le “strategie” necessarie per poter spogliarsi di ogni tipo di pregiudizio di fronte a una persona detenuta e non restare risucchiatɜ dall’istituzione carceraria. Sono le esperienze del contatto con le persone che erano dentro per reati di violenza sessuale a raccontarci ancora una volta quello di cui poi non si smetterà di parlare e che si radica nel nostro contemporaneo da un tempo quasi inquantificabile: la violenza strutturale sul corpo delle donne. 

LAURA, 4-03-2009

Infondo al corridoio, seconda rotonda subito a sinistra. 

Cammino con calma Il corridoio è lungo e gelido, e la temperatura è sempre, misteriosamente più fredda di quella esterna, il pavimento è oleoso che quasi ci si pattina, doppia rampa di scale. Io salgo sempre quella di destra dove il primo gradino è rotto, non c’è un motivo forse un po’ per abitudine o per cercare quella sicurezza sciocca che solo le abitudini sanno dare, quella sicurezza che fuggo all’esterno, perché le abitudini sono delle bestie, e per quanto spesso le preferisca all’uomo per la loro sincerità, ritengo che immobilizzarsi in esse non ci renda liberi di crescere.

 

Ma come poter parlare di libertà in un luogo simile?

E allora come bestia ripeto sempre lo stesso rituale. 

Alla fine del corridoio seconda rotonda a sinistra, Ottava sezione.

 

Quello dell’ottava è l’unico portone d’ingresso di tutti i “bracci”, dai  quali vetri non si vede attraverso. Devo dire che è la sezione in cui vado maggiormente mal volentieri,  sempre prima di entrare faccio un grande respiro, come quelli che si fanno in mare prima di andare giù in apnea, e indosso il migliore tra i miei sguardi di repertorio seri e duri.

L’ottava è strana, al momento dell’ingresso ho sempre la stessa sensazione, come di stare entrando in un manicomio. I muri sono bianchi, tutto è molto bianco, la sezione è quella che riceve in assoluto il minor numero di visite dal mondo esterno civile laico e cattolico. Gli ospiti mi sembrano avere spesso tutti sguardi vuoti e tondi, anche se non è così, e aspettano sempre

 

Il corridoio principale è spesso vuoto, al contrario delle sezioni comuni, per ognuna delle quali ho costruito un’immagine che la contenga. Per poter lavorare e vivere in carcere credo che le persone creino dentro di sé delle strategie per poter sopravvivere

Io personalmente mi creo una barriera difensiva che impedisca alla struttura architettonica, a quella gerarchica e al concetto di chiusura, di farsi spazio ed annidarsi dentro di me, una strategia che faccia sì che non venga interiorizzata la mentalità carceraria. E poiché ragiono molto per immagini e riesco a costruire in me dei contenitori per esse, tutto ciò che vedo,  anche le persone, vivono attraverso il filtro della mia immaginazione. 

 

Questa è una sezione molto particolare, è quella deputata ad accogliere le persone che hanno commesso reati di violenza, di pedofilia e i cosidetti “infami”, ovvero chi fa nomi, cioè “se la canta” non attenendosi al codice che vige tra i galeotti. Il carcere è un micro universo e come tale ha le sue regole, e il disprezzo comune verso chi usa violenza sulle donne e sui minori, è l’unico spazio all’interno del quale si trovano uniti guardie e detenuti. In ottava l’unico a non fare differenze è dio, che attraverso il volontariato cattolico porta conforto a queste “anime perse”. Dovrei dire che forse è uno dei pochi posti dove non fa differenze. 

Io non vivo attraverso una caritatevole ed imparziale morale cattolica,  per cui sono costretta a scindermi tra l’operatrice che offre lo stesso servizio a tutti e la donna che fermamente ama prendere posizione. Quello che mi sono costretta a fare è stato separarmi da un giudizio a priori  dove non c’è spazio per l’errore della legge, che non  è quasi mai giusta, ma mantenere uno spazio solo mio in cui osservo, studio, immagino, ascolto.

 

 Mi siedo nella stanzetta bianca l’agente chiama le persone che hanno fatto domandina. L’operatrice svolge impeccabilmente il suo lavoro, cercando di non entrare nei dettagli, ma tutti hanno un gran bisogno di dire come sono andate effettivamente le cose benché io insista che non importa, che noi parliamo allo stesso modo con tutti. Ma il marchio di stupratore è un pesante fardello da portare. Tutti vogliono convincermi della loro innocenza neanche fossi il giudice. Ed è così che mi trovo a  parlare perlopiù con persone comuni spesso benestanti  a cui non manca nulla, vittime della “follia” del momento – o più propriamente di un sistema culturale che inietta loro fin da subito una mentalità patriarcale e violenta – o assolutamente innocenti, e a viaggiare tra stanze d’albergo, B&B, capannoni dove si consumano i delitti. Sono vittime di false denunce, di ricatti…. Donne che si puliscono dallo sperma apposta con i propri abiti per poi poter ricattare, donne che affrontano quella che viene vissuta come la vergogna di aver subito una violenza, trafile burocratiche, esami del DNA, interrogatori spese legali per una ripicca, per ricattare. Per cosa? Quante volte effettivamente può presentarsi una situazione del genere? Non lo so ma conservo i  miei dubbi.

Capita in questi colloqui che sia il concetto di violenza ad essere messo in discussione, violenza può essere qualsiasi contatto… la violenza non esiste. Qualcuno racconta di non aver violentato nessuno, semplicemente di essere andato con una prostituta senza poi pagare: non è violenza, perché si tratta di una puttana. E se non si tratta in termini pratici di una prostituta, è sempre così che si rivolgono alla donna, come a una cosa. E attraverso i volti e le parole io non vedo le persone che mi parlano, non raccolgo  disgusto verso il singolo, proprio non mi viene, ma dall’interno del carcere, prendo tutto questo come un plastico, una miniatura, e lo riporto fuori. Io vedo una identica società ricostruita in piccolo, un’identica  ignoranza che accomuna poveri e ricchi. Lo stesso meccanismo di scuse e omertà che copre le migliaia di stupri che avvengono nelle famiglie, dentro le case coperti dal perbenismo borghese.  Continuo a vedere una società che porta alta la bandiera dell’uguaglianza, delle pari opportunità che si basa su uno sviluppo orizzontale e superficiale  che non si guarda mai indietro, che non va in profondità, che lavora per i diritti di tutti ma non insegna, non dà strumenti alle persone per poter capire davvero, che non l’ha mai fatto se ancora  adesso la gente ragiona così.  Una società che prevede che il  corpo sia uno strumento politico legato alla sua utilizzazione economica. 

E nessun corpo più di quello femminile è stato assoggettato a strumento economico, la società se ne impadronisce attraverso una falsa emancipazione che ci rende ancora più schiave, ancora più macchine, ancora più assoggettate ad un controllo maschile. Impedisce di fare figli per un culto del corpo o perché è riuscita a convincere che la realizzazione è esclusivamente quella lavorativa, dunque personale e quindi economica, negando uno spazio creativo che ognuna ha il diritto di scegliere, ed imponendone uno restrittivo all’interno di un’immagine. Una società che ugualmente ti penalizza se invece i figli li vuoi fare, perché non sei più una bestia produttiva, una società che ha costruito un concetto di famiglia  dove la prima cosa, la base è la stabilità economica e la ricchezza, rendendoci ignoranti al fatto  che “la ricchezza impone un più accentuato controllo sociale” .

Si mette in prima pagina un mostro si “punisce uno per educarne cento”, si fanno scivolare nel dimenticatoio gli stupri compiuti “dai quei bravi ragazzi” di buona famiglia, continuando silenziosamente a colludere con tutte le centinaia di violenze che avvengono dentro le sicure mura domestiche, ma infondo lontano dagli occhi…

Analizziamo la Violenza di Genere in Italia: con il principio di Pareto 80/20

MATTEO

La violenza di genere è un problema persistente in Italia e in tutto il mondo. Per esaminare questa questione complessa, possiamo applicare il principio di Pareto 80/20, noto anche come il principio di “vital few e trivial many“. I più assidui lettori del blog ricorderanno che questo principio suggerisce che circa l’80% degli effetti proviene dal 20% delle cause. 

 

Il 20% dei Casi di Violenza di Genere

Nel contesto della violenza sulle donne in Italia, il 20% dei casi rappresenta una grande parte del problema. Questi sono i casi più gravi, che spesso portano a gravi danni fisici e psicologici per le vittime. Questi casi richiedono una risposta urgente e coordinata da parte delle autorità e delle organizzazioni di supporto.

 

Le Cause Principali dell’80%

L’80% dei casi rimanenti di violenza di genere ha spesso cause radicate in dinamiche sociali, culturali ed economiche. Queste includono stereotipi di genere, disuguaglianza economica, mancanza di istruzione e consapevolezza, e altre sfide strutturali. Affrontare queste cause richiede un impegno a lungo termine per promuovere cambiamenti significativi nella società.

 

Concentrarsi sull’Educazione e la Sensibilizzazione 

Uno dei modi più efficaci per applicare il principio di Pareto è concentrarsi sull’educazione e sulla sensibilizzazione. Investire nella formazione delle giovani generazioni e nell’informazione delle comunità può contribuire a ridurre la violenza di genere. Promuovere l’uguaglianza di genere nelle scuole e nelle campagne di sensibilizzazione pubblica può avere un impatto significativo.

 

Supporto alle Vittime di violenza di genere

Per affrontare il 20% dei casi più gravi, è essenziale migliorare l’accesso delle vittime a servizi di supporto. Questi servizi dovrebbero essere facilmente accessibili, rispettare la privacy delle vittime e offrire assistenza legale, psicologica ed economica.

 

L’applicazione del principio di Pareto 80/20 alla violenza di genere in Italia ci offre una prospettiva interessante sulla questione. Concentrando gli sforzi sull’80% dei casi meno gravi e sulle cause principali, possiamo lavorare per creare un cambiamento significativo nella società italiana. Questo richiede una collaborazione tra istituzioni, organizzazioni non governative e la società civile per affrontare la violenza di genere in tutte le sue forme e promuovere un futuro più equo e sicuro per tutti.